domenica 31 ottobre 2010

Il limite

 

ANNA ACHMATOVA

C’È NEL CONTATTO UMANO…

a Nikolaj Vladimirovič Nedobrovo          

C'è nel contatto umano un limite fatale,
non lo varca né amore né passione,
pur se in muto spavento si fondono le labbra
e il cuore si dilacera d'amore.

Perfino l'amicizia vi è impotente,
e anni d'alta, fiammeggiante gioia,
quando libera è l'anima ed estranea
allo struggersi lento del piacere.

Chi cerca di raggiungerlo è folle,
se lo tocca soffre una sorda pena...
ora hai compreso perché il mio cuore
non batte sotto la tua mano.

1915

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È lontana dal Simbolismo, dal Decadentismo e dalla tradizione russa Anna Achmatova: lo si può apprezzare in questa poesia di tre quartine dove nessuna analogia, neppure nascosta, serve a sorreggere i versi: è una scarna constatazione, la pura e semplice esposizione di verità che la poetessa ucraina con una disarmante nudità e con occhio malinconico riveste di disincanto.

È la voce di una donna che si è abbandonata totalmente all’amore, che l’ha vissuto con pienezza e con passione (“giacevo ed attendevo quella cosa / che ancora non si chiamava tormento”) e adesso si trova a fare i conti con questo sentimento, con il suo volto crudele, con la sua metamorfosi da fiammeggiante gioia a peso nel cuore.

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Immagine dal film “Ridi, pagliaccio”

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LA FRASE DEL GIORNO
L'amore è sutura, / non benda. Non scudo / sutura.
MARINA CVETAEVA




Anna Andreevna Achmatova, pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko (Bol'soj Fontan, 23 giugno 1889 – Mosca, 5 marzo 1966), poetessa russa. Fu osteggiata dal regime sovietico per il suo “estetismo” e per il “disimpegno" politico”. La sua poesia spesso scarna, libera dalle analogie simboliche, scolpita fino all'osso, si veste di un’ironia e di una malinconia che sconfinano nel disincanto.


sabato 30 ottobre 2010

L’uomo ombra

 

FERDINANDO MONTEGNACO

L’OMBRA, MENTRE S’ESTENDE

L’ombra, mentre s’estende,
segue il real suo oggetto,
ovunque il piè lo scorge, o lungi, o presso:
et io faccio l’istesso
con voi, segno perfetto
e centro del mio core,
fatto linea amorosa, ombra d’Amore.

(da Rime di diversi elevati ingegni de la città di Udine, 1597)

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Un madrigale del Cinquecento, di un oscuro poeta udinese, Ferdinando Montegnaco, nato nel 1571 e morto a trentadue anni nel 1603, le cui notizie si perdono nel corso dei secoli. Questo genere di componimento lirico apprezzato tra il Trecento e il Settecento, come abbiamo già visto, ben si presta a esprimere complimenti e lodi con espressioni gentili e graziose e talvolta anche languide. Secondo Giosue Carducci, è “un idillio lavorato a piccole immagini, tanto più netto e vivace, quanto più circoscritto lo spazio entro il quale si girava e più semplice il contorno”.

Credo non ci sia bisogno di tradurre questo italiano poetico nella vulgata corrente, sono tutte parole che comprendiamo. E possiamo capire la modernità di questo madrigale, il desiderio di essere l’ombra della donna amata, di stare sempre con lei, essere il suo scudiero, il suo cavaliere.

Certo, le donne moderne chiedono più indipendenza e più autonomia anche nel rapporto amoroso, ma  forse un’ombra così, un fidanzato d’altri tempi che c’è sempre a qualcuna ancora piacerebbe….

 

 


Fotografia © Francesca Woodman

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LA FRASE DEL GIORNO
Perduto è tutto il tempo / che in amar non si spende.
TORQUATO TASSO, Aminta




Ferdinando Montegnaco (1571-1603), poeta e magistrato. Pubblicò molti versi in varie raccolte poetiche stampate a Udine tra il 1594 e il 1599, in particolare 34 sonetti e 23 madrigali compresi nelle Rime di diversi elevati ingegni de la città di Udine, pubblicate a cura di Giacomo Bratteolo nel 1597.



venerdì 29 ottobre 2010

Della punizione

 

Pensavate di trovare Del Piero? Non c’è. Però è una punizione anche quella che tira il calciatore: altro non è che l’applicazione della pena, il castigo inflitto a chi trasgredisce una legge, in  quel caso un fallo contrario al regolamento del gioco del calcio.

Vasta è la letteratura sulla punizione, sulla sua efficacia, sulla necessità di farla seguire al delitto. Pensiamo alla Genesi (XIX, 24-25): “Allora il Signore fece piovere sopra Sodoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco, da parte del Signore, dal cielo, e distrusse quelle città e tutta la pianura, tutti gli abitanti della città e ogni germinazione del suolo”. È il Dio vendicativo e geloso del Vecchio Testamento, quello che spazza via eserciti e spalanca le strade del Mar Rosso a Mosè, così diverso dal Dio del perdono del Vangelo. E ancora, nell’Esodo (XXI, 23-24): “Richiederai vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, ustione per ustione, ferita per ferita, lividura per lividura”. Il Levitico, il libro che raccoglie collezioni di leggi, è un vero e proprio elenco di punizioni, dal bestemmiatore all’assassino, dalle colpe contro il culto a quelle contro la famiglia.

C’è chi piega verso una specie di giustizialismo: il Publilio Siro del primo secolo a. C. pare il sindaco di New York Rudolph Giuliani degli anni a cavallo del Duemila: Chi passa sopra ad una colpa, incoraggia a commetterne molte”. Il suo quasi contemporaneo Seneca è più comprensivo: “La principale e la più grave punizione per chi ha commesso una colpa sta nel sentirsi colpevole”. Forse aveva troppa fiducia nel genere umano, forse non conosceva i “mostri” dal pelo sullo stomaco che popolano i nostri telegiornali. George Savile Halifax, diplomatico inglese del XVII secolo con Carlo II, è alla destra di Publilio Siro: “Non si impicca un uomo perché ha rubato dei cavalli, ma perché i cavalli non vengano più rubati”. Dello stesso avviso, anche se più moderato, il filosofo inglese del XIX secolo Herbert Spencer: “Ogni delitto impunito ne genera una famiglia”. Un vero e proprio garantista è invece un altro filosofo inglese, Jeremy Bentham: “Ogni punizione è cattiveria; ogni punizione in sé è male”.

Altri se ne fregano bellamente del castigo: Oscar Wilde si esalta secondo suo costume: “C’è una sorta di conforto nel condannare noi stessi. Quando ci condanniamo, pensiamo che nessun altro ha il diritto di farlo”. Invece il Don Giovanni di Tirso de Molina dice al servo che lo esorta a pensare al castigo divino “Così lontano è il castigo!”. Sarcastico come sempre il poeta latino Giovenale: “C’è chi, come prezzo del proprio misfatto, ebbe la forca, chi la corona”.

Chi prende a cuore la sorte del punito, tanto da diventare un monomaniaco del tema, è Cesare Beccaria: “La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggior impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità”. E anche: “Perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto”. E poi: “È meglio prevenire i delitti che punirgli”. E ancora: “Quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso ella sarà tanto più giusta e tanto più utile”. Gustave Flaubert, quanto a lui, ne fa una questione di stile: “Patibolo. Quando ci si sale, darsi da fare per pronunciare qualche parola eloquente prima di morire”.

 

John Barrymore (Don Giovanni) © Celebrity Images

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LA FRASE DEL GIORNO
Le pene servono a spaventare coloro che non vogliono.
KARL KRAUS, Detti e contraddetti

giovedì 28 ottobre 2010

Così mi fu consegnato il mondo

 

MARÍA MERCEDES CARRANZA

POEMA DEI FATI

Sono figlia di Benito Mussolini
e di qualche attrice degli anni ‘40
che cantava “Giovinezza”.
Hiroshima incendiò il cielo
il giorno della mia nascita e alla mia culla
arrivarono, Fati implacabili,
un uomo con molte pagine accarezzate
dove giacevano versi di amore e morte;
la voce furiosa di Pablo Neruda;
sotto la sua corona di cenere, Wilde
bello e maledetto,
parlò dello splendore della Vita
e della seduzione fatale della Sconfitta;
qualcuno gridò “morte all’intelligenza”,
ma nello stesso istante Albert Camus
diceva parole
che erano di acciaio e luce;
la Passione ardeva sulla fronte di Mishima;
una sconosciuta ombra o maschera
posò nel mio cuore il Paradiso Perduto
e un verso;
“par delicatesse j’ai perdu ma vie”.
Cadeva la pioggia triste di Vallejo
si spegneva nel vento la fiamma di Porfirio;
nell’aria il furore delle pallottole 
che andavano da Cúcuta a Leticia, si incrociavano
con i cannoni di “Casablanca”
e le parole della sua canzone malinconica:

“Il tempo passa,
un bacio è solo un bacio...”

Così mi fu consegnato il mondo.
Queste cose di orrore, musica e anima
hanno segnato i miei giorni e i miei sogni.

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Il giorno in cui a Bogotà, in Colombia, nacque María Mercedes Carranza era il 6 agosto del 1945. Da pochi mesi era morto Benito Mussolini e il fascismo era caduto. Ma ancora resistevano nella memoria del mondo i lunghi giorni della guerra. E quel 6 agosto la prima bomba atomica veniva sganciata sulla città giapponese di Hiroshima.

Da questa coincidenza la poetessa e giornalista colombiana, scomparsa nel 2003 – direttrice di “El Siglo de Bogotà” e del “Pueblo de Cali”, nonché responsabile di pagine culturali su quotidiani e riviste – trae una specie di presagio, si eleva ad aruspice della sua stessa vita giudicando il suo destino da ciò che le veniva letto e da ciò che si poteva ascoltare alla radio. A Mussolini e all’atomica si contrappongono così personaggi come Pablo Neruda e Oscar Wilde, Yukio Mishima e Albert Camus, i versi del “Paradiso Perduto” di Milton. E aleggia nell’aria la celebre frase di “Casablanca”, uno dei film più celebri di tutti i tempi: “As time goes by, a kiss is just a kiss…”

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Berthe Morisot, “La culla”

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LA FRASE DEL GIORNO
Nei certificati di nascita è scritto dove e quando un uomo viene al mondo, ma non vi è specificato il motivo e lo scopo.
ANTON CECHOV




CarranzaMaría Mercedes Carranza (Bogotá, 24 maggio 1945 – 11 luglio 2003), poetessa e giornalista colombiana. La sua opera poetica, secondo James J. Alstrum, è “demolitoria, ma sana e necessaria per indirizzare la poesia su percorsi insoliti”.


mercoledì 27 ottobre 2010

Quelle che s’incontrano nei versi

 

EUGENIO MONTALE

USCIMMO SUL BOW WINDOW O QUALCOSA DI SIMILE

Uscimmo sul bow window o qualcosa di simile
(il mio inglese è imperfetto) per liquidare
l'impiegato di banca che vantava le sue conquiste.
“Io sono una di quelle che s'incontrano nei versi
dei sedicenti poeti. Così sarà di me”.
Scartai l'ipotesi con orrore. Eppure quella sera
eri più intelligente di me. Senza contare
che mai il proiettile
si riconosce nel bersaglio.

(da La casa di Olgiate, Mondadori, 2006)

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EUGENIO MONTALE

PREVISIONI

Ci rifugiammo nel giardino (pensile se non sbaglio)
per metterci al riparo dalle fanfaluche
erotiche di un pensionante di fresco arrivo
e tu parlavi delle donne dei poeti
fatte per imbottire illeggibili carmi.
Così sarà di me aggiungesti di sottecchi.
Restai di sasso. Poi dissi dimentichi
che la pallottola ignora chi la spara
e ignora il suo bersaglio.
                           Ma non siamo
disse C. ai baracconi. E poi non credo
che tu abbia armi da fuoco nel tuo bagaglio.

(da Altri versi, Mondadori, 1981)

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“La casa di Olgiate” raccoglie versi di Eugenio Montale ritrovati nel 2004 presso il Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia. Sono poesie dai toni diaristici ed epigrammatici tipici dell’ultimo Montale, quelli riconducibili a “Quaderno di quattro anni” e  ad “Altri versi”. Si tratta di componimenti scritti tra il 1978 e il 1980, quando il Premio Nobel aveva superato la soglia degli ottant’anni. E la vecchiaia, oltre ad aumentare la sua vena sarcastica trasformando la sua teologia negativa in un nichilismo scientifico irriguardoso verso le nuove scoperte, porta ancora al ricordo, al vissuto: “È uno sproposito credere / che il ricordo sia immateriale” scrive in una delle cinquantasei poesie che compongono la raccolta.

“Uscimmo nel bow window o qualcosa di simile” è un manoscritto del 26 ottobre 1978  che rappresenta una variante di “Previsioni”, datata forse erroneamente 1977 dall’autore, e inserita in “Altri versi”, l’ultima raccolta edita a maggio del 1981. Quella donna che finisce nei versi dei poeti è l’italianista americana Irma Brandeis, la Musa, la Clizia montaliana che soggiornava alla Pensione Annalena di Firenze nel 1934. Immaginiamo quel bow window, un accogliente giardino interno alla pensione – in “Clizia dice” Montale precisa: “Sebbene mezzo secolo sia scorso / potremo facilmente ritrovare / il bovindo nel quale si stette ore / spulciando il monsignore delle pulci”. Clizia e il poeta escono per evitare le chiacchiere moleste di un seccatore, il tipico dongiovanni di provincia. Lei si allunga sulla chaise longue della veranda, ha un libro in mano, “vite di santi semisconosciuti / e poeti barocchi di scarsa reputazione”. E la Musa sancisce il suo ruolo, sa che entrerà nelle poesie di Montale, che diventerà una figura importante nei suoi versi: “Così sarà di me”. Il poeta sa già dare il nome a quel sentimento: “Non era amore quello / era come oggi e sempre / venerazione”.

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Don Kettleborough, “Ritz veranda”

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LA FRASE DEL GIORNO
Il ricordo è un pezzo di eternità / che vagola per conto suo / forse in attesa di rintegrarsi in noi.
EUGENIO MONTALE, Altri versi




Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 – Milano, 12 settembre 1981), poeta e scrittore italiano, Gli fu conferito il Premio Nobel per la Letteratura nel 1975 “per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni”, ovvero la “teologia negativa” in cui il "male di vivere"  si esprime attraverso la corrosione dell'Io lirico tradizionale e del suo linguaggio.

martedì 26 ottobre 2010

L’ipotesi di Gozzano

 

GUIDO GOZZANO

L'IPOTESI


I.

Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via...

E penso pur quale Signora m'avrei dalla sorte per moglie,
se quella tutt'altra Signora non già s'affacciasse alle soglie.

II.

Sposare vorremmo non quella che legge romanzi, cresciuta
tra gli agi, mutevole e bella, e raffinata e saputa...

Ma quella che vive tranquilla, serena col padre borghese
in un'antichissima villa remota del Canavese...

Ma quella che prega e digiuna e canta e ride, più fresca
dell'acqua, e vive con una semplicità di fantesca,

ma quella che porta le chiome lisce sul volto rosato
e cuce e attende al bucato e vive secondo il suo nome:

un nome che è come uno scrigno di cose semplici e buone,
che è come un lavacro benigno di canfora spigo e sapone...

un nome così disadorno e bello che il cuore ne trema;
il candido nome che un giorno vorrò celebrare in poema,

il fresco nome innocente come un ruscello che va:
Felìcita! Oh! Veramente Felìcita!... Felicità...

III.

Quest'oggi il mio sogno mi canta figure, parvenze tranquille
d'un giorno d'estate, nel mille e... novecento... quaranta.

(Adoro le date. Le date: incanto che non so dire,
ma pur che da molto passate o molto di là da venire.)

Sfioriti sarebbero tutti i sogni del tempo già lieto
(ma sempre l'antico frutteto darebbe i medesimi frutti).

Sopita quell'ansia dei venti anni, sopito l'orgoglio
(ma sempre i balconi ridenti sarebbero di caprifoglio).

Lontano i figli che crebbero, compiuti i nostri destini
(ma sempre le stanze sarebbero canore di canarini).

Vivremo pacifici in molto agiata semplicità;
riceveremmo talvolta notizie della città...

la figlia: «...l'evento s'avanza, sarete Nonni ben presto:
entro fra poco nel sesto mio mese di gravidanza...»

il figlio: «...la Ditta ha ripreso le buone giornate. Precoci
guadagni. Non è più dei soci quel tale ingegnere svedese».

Vivremmo, diremmo le cose più semplici, poi che la Vita
è fatta di semplici cose, e non d'eleganza forbita.

IV.

Da me converrebbero a sera il Sindaco e gli altri ottimati,
e nella gran sala severa si giocherebbe, pacati.

Da me converrebbe il Curato, con gesto canonicale.
Sarei - sui settanta - tornato nella gioventù clericale,

poi che la ragione sospesa a lungo sul nero Infinito
non trova migliore partito che ritornare alla Chiesa.

V.

Verreste voi pure di spesso, da lungi a trovarmi, o non vinti
ma calvi grigi ritinti superstiti amici d'adesso...

E tutta sarebbe per voi la casa ricca e modesta;
si ridesterebbero a festa le sale ed i corridoi...

Verreste, amici d'adesso, per ritrovare me stesso,
ma chi sa quanti me stesso sarebbero morti in me stesso!

Che importa! Perita gran parte di noi, calate le vele,
raccoglieremmo le sarte intorno alla mensa fedele.

Però che compita la favola umana, la Vita concilia
la breve tanto vigilia dei nostri sensi alla tavola.

Ma non è senza bellezza quest'ultimo bene che avanza
ai vecchi! Ha tanta bellezza la sala dove si pranza!

La sala da pranzo degli avi più casta d'un refettorio
e dove, bambino, pensavi tutto un tuo mondo illusorio.

La sala da pranzo che sogna nel meriggiar sonnolento
tra un buono odor di cotogna, di cera da pavimento,

di fumo di zigaro, a nimbi... La sala da pranzo, l'antica
amica dei bimbi, l'amica di quelli che tornano bimbi!




Claude Monet, “Le dejeuner”



VI.

Ma a sera, se fosse deserto il cielo e l'aria tranquilla
si cenerebbe all'aperto, tra i fiori, dinnanzi alla villa.

Non villa. Ma un vasto edifizio modesto dai piccoli e tristi
balconi settecentisti fra il rustico ed il gentilizio...

Si cenerebbe tranquilli dinnanzi alla casa modesta
nell'ora che trillano i grilli, che l'ago solare s'arresta

tra i primi guizzi selvaggi dei pippistrelli all'assalto
e l'ultime rondini in alto, garrenti negli ultimi raggi.

E noi ci diremmo le cose più semplici poi che la vita
è fatta di semplici cose e non d'eleganza forbita:

«Il cielo si mette in corruccio... Si vede più poco turchino...»
«In sala ha rimesso il cappuccio il monaco benedettino.»

«Peccato!» - «Che splendide sere!» - «E pur che domani si possa...»
«Oh! Guarda!... Una macroglossa caduta nel tuo bicchiere!»

Mia moglie, pur sempre bambina tra i giovani capelli bianchi,
zelante, le mani sui fianchi andrebbe sovente in cucina.

«Ah! Sono così malaccorte le cuoche... Permesso un istante
per vigilare la sorte d'un dolce pericolante...»

Riapparirebbe ridendo fra i tronchi degli ippocastani
vetusti, altoreggendo l'opera delle sue mani.

E forse il massaio dal folto verrebbe del vasto frutteto,
recandone con viso lieto l'omaggio appena raccolto.

Bei frutti deposti dai rami in vecchie fruttiere custodi
ornate a ghirlande, a episodi romantici, a panorami!

Frutti! Delizia di tutti i sensi! Bellezza concreta
del fiore! Ah! Non è poeta chi non è ghiotto dei frutti!

E l'uve moscate più bionde dell'oro vecchio; le fresche
susine claudie, le pesche gialle a metà rubiconde,

l'enormi pere mostruose, le bianche amandorle, i fichi
incisi dai beccafichi, le mele che sanno di rose

emanerebbero, amici, un tale aroma che il cuore
ricorderebbe il vigore dei nostri vent'anni felici.

E sotto la volta trapunta di stelle timide e rare
oh! dolce resuscitare la giovinezza defunta!

Parlare dei nostri destini, parlare di amici scomparsi
(udremmo le sfingi librarsi sui cespi di gelsomini...)

Parlare d'amore, di belle d'un tempo... Oh! breve la vita!
(la mensa ancora imbandita biancheggierebbe alle stelle).

Parlare di letteratura, di versi del secolo prima:
«Mah! Come un libro di rima dilegua, passa, non dura!»

«Mah! Come son muti gli eroi più cari e i suoni diversi!
È triste pensare che i versi invecchiano prima di noi!»

«Mah! Come sembra lontano quel tempo e il coro febeo
con tutto l'arredo pagano, col Re-di-Tempeste Odisseo...»

Or mentre che il dialogo ferve mia moglie, donnina che pensa,
per dare una mano alle serve sparecchierebbe la mensa.

Pur nelle bisogna modeste ascolterebbe curiosa;
- «Che cosa vuol dire, che cosa faceva quel Re-di-Tempeste?»

Allora, tra un riso confuso (con pace d'Omero e di Dante)
diremmo la favola ad uso della consorte ignorante.

Il Re di Tempeste era un tale
che diede col vivere scempio
un bel deplorevole esempio
d'infedeltà maritale,
che visse a bordo d'un yacht
toccando tra liete brigate
le spiaggie più frequentate
dalle famose cocottes...
Già vecchio, rivolte le vele
al tetto un giorno lasciato,
fu accolto e fu perdonato
dalla consorte fedele...
Poteva trascorrere i suoi
ultimi giorni sereni,
contento degli ultimi beni
come si vive tra noi...
Ma né dolcezza di figlio,
né lagrime, né pietà
del padre, né il debito amore
per la sua dolce metà
gli spensero dentro l'ardore
della speranza chimerica
e volse coi tardi compagni
cercando fortuna in America...
- Non si può vivere senza
danari, molti danari...
Considerate, miei cari
compagni, la vostra semenza! -
Vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia nel folle volo
vedevano già scintillare
le stelle dell'altro polo...
vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia per l'alto mare:
si videro innanzi levare
un'alta montagna selvaggia...
Non era quel porto illusorio
la California o il Perù,
ma il monte del Purgatorio
che trasse la nave all'in giù.
E il mare sovra la prora
si fu rinchiuso in eterno.
E Ulisse piombò nell'Inferno
dove ci resta tuttora...

Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via.
Io penso talvolta...

(da Poesie sparse)

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Guido Gozzano si spense a Torino il 9 agosto del 1916, stroncato dalla tubercolosi. Non aveva ancora compiuto trentatré anni. Aveva tentato invano di vincere la malattia con le medicine e con un viaggio in India, compiuto nel 1912 al caldo dei Tropici.

L’ipotesi che fa in questa poesia è quella di scampare alla “nera signora”, di invecchiare serenamente al fianco di una donna amata, amatissima, quella Signorina Felicita della quale scrisse “Tu m’hai amato (…) / Ah! Con te, forse, piccola consorte / vivace, trasparente come l’aria, / rinnegherei la fede letteraria / che fa la vita simile alla morte”. Ecco allora l’ipotesi: Gozzano ha vinto la malattia, è il 1940 – si noti l’autocitazione quasi parodica del mille ottocentocinquanta di “L’amica di Nonna Speranza” - ha cinquantasette anni e una famiglia, figli che gli scrivono da città lontane, autorità che si presentano per la cena – un altro richiamo alla celebre “Signorina Felicita” – addirittura il Curato, ma più avanti, verso i settant’anni, come si cura di specificare Gozzano, quando rientrerà nell’ambito della Chiesa…

Un quadretto di una serena vita borghese con la cena, la serva, la padrona di casa che si cura che tutto vada per il suo verso, la frutta appena colta nel giardino, discorsi sui libri appena letti, rimpianti e ricordi. “Se già la Signora vestita di nulla non fosse per via"..

 

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LA FRASE DEL GIORNO
Fare bisogna. Vivere bisogna / la bella vita dalle mille offerte.
GUIDO GOZZANO, I colloqui




Guido Gustavo Gozzano (Torino, 19 dicembre 1883 – 9 agosto 1916),   poeta italiano, fu il capostipite della corrente letteraria post-decadente del crepuscolarismo. Inizialmente si dedicò alla poesia nell'emulazione di D'Annunzio e del suo mito del dandy. Successivamente, la scoperta delle liriche di Giovanni Pascoli lo avvicinò alla cerchia di poeti intimisti, accomunati dall'attenzione per "le buone cose di pessimo gusto". Morì di tisi a 32 anni.


lunedì 25 ottobre 2010

In alcuni mondi


LARS GUSTAFSSON

SULLA RICCHEZZA DEI MONDI ABITATI


In alcuni mondi è stata confermata
la supposizione di Riemann sui numeri primi

In alcuni mondi si ottengono
da antichissimi funghi ampie confessioni

In qualche mondo il profondo buio è
illuminato da meravigliose pietre parlanti

In parecchi mondi l'estate dura
un secolo e chi ha la sfortuna

di nascere nel secolo invernale
passa la vita in sonno

appeso nella parte impellicciata di
bozzoli color grigio chiaro

In alcuni mondi anche questa poesia è
già stata scritta da innumerevoli poeti.


(da En tid i Xanadu, 2002 – Trad. Enrico Tiozzo)


La realtà è quella in cui siamo immersi, è questo mondo visibile che ci ritroviamo a denigrare o a esaltare a seconda dell’umore del momento. Ma chi ci dice che non vi siano altre dimensioni, che altri mondi non si siano sviluppati parallelamente a questo? È un concetto evidentemente insito nella natura umana, la fantascienza fa di questa ricerca un tema ricorrente – penso a telefilm come “Sliders – I viaggiatori” e  “Fringe”, dove il viaggio nella realtà “altra” è l’asse portante. Vi sono teorie che postulano l'esistenza di numerosi universi multipli, forse infiniti, che in qualche caso possono anche interagire. Anche la letteratura fantastica attinge a pieni mani a questa teoria: cosa c’è dietro lo specchio di Alice se non un’altra dimensione? E lo stesso oltre l’armadio delle “Cronache di Narnia”. Così anche “La torre nera” di Steven King, “Neanche gli dei” di Isaac Asimov e “Timeline” di Michael Crichton. E citerei anche qualche film: Ritorno al futuro – Parte II”, “Nightmare before Christmas” e “Donnie Darko”.

E la poesia? Il prolifico poeta svedese Lars Gustafsson,  autore di un centinaio di opere tra romanzi, poesie, saggi e racconti, perlustra qualcuno di questi mondi con la sua tipica rete di immagini e di associazioni, portandoci per mano come una guida nelle stanze di un museo.


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Una scena del telefilm “Fringe” © Fox

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LA FRASE DEL GIORNO
La poesia similmente alla dimostrazione matematica può riuscire o fallire. Quando riesce è come se una verità fosse portata alla luce.
LARS GUSTAFSSON




Lars_Gustafsson_02Lars Gustafsson (Västerås, 17 maggio 1936), poeta e scrittore svedese. Dalla fine degli Anni ‘50 ha prodotto una copiosa opera letteraria composta da romanzi, saggi, poesie e racconti. Nominato al Nobel, ottenne la Medaglia di Goethe.



domenica 24 ottobre 2010

Ode alla Sicilia


LUIGI FIORENTINO

SICILIA

Lucide arance della Conca d'Oro
tra cielo e mare, e luccichio d'alloro.

Fuggono
campi di grano a margine d'ulivi,
crune di campanili
e cupole moresche alte nel sole.

(Albica vele, intorno, il mar di Scilla;
sembra la terra supplichi Aretusa.)

Colà, le donne han gli occhi di giaietto,
e il sangue avvampa
nei miti venti che sui colli strisciano.
La casa-cuore accoglie il passeggero.
Per strappare un triangolo di verde
catene d'uomini frangono le rocce
e s'innalzano nenie al solleone.

(Nella piana dove atterrì il Ciclope,
eterna-azzurra dei sospiri d'Aci,
bruciano forze arcane il Solitario.)

Narcisi, i mandorli nei fiumi
creano sogni bianchi
e a spigolo di strada,
a mezzo d'agavi e vigne,
stride lento il carretto
già che tra sparsi templi,
figlia del sole, la locusta grilla.
Tutta la terra è musica che vive.

(da Basalto del tuo corpo, Maia, 1951)

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Goethe nel suo Viaggio in Italia scrisse che “Senza la Sicilia, l'Italia non lascia traccia nell'anima: qui si trova la chiave di tutto”. È quello che ho pensato anch'io davanti a tanti monumenti, respirando la storia tra le rovine, guardando le città arroccate sui colli sullo sfondo del cielo. Luigi Fiorentino, nato a Mazara del Vallo nel 1913 ed emigrato a Siena, dove insegnò alla Scuola per Stranieri, coglie questo lato sospeso tra favola e mito, ma lo fa con pudore, in questa sorta di controcanto messo tra parentesi. Preferisce disporre l’animo all’aspetto più sanguigno e umano della Sicilia, alla nostalgia che prova per la sua terra.

La sua descrizione non si lascia andare al luogo comune, neppure quando inserisce elementi folkloristici, come il carretto che attraversa la riarsa terra rossa tra gli antichi templi: racconta una terra ospitale – splendida è l’immagine della “casa-cuore” – dove la natura è bellissima ma talora avara. Una piccola “Wunderkammer” siciliana dove sono raccolte le atmosfere che il viaggiatore, partendo, si porta negli occhi e nel cuore.

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Ragusa, il Duomo – Fotografia © Daniele Riva

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LA FRASE DEL GIORNO
Anima antica, grigia / di rancori, torni a quel vento, annusi / il delicato muschio che riveste / i giganti sospinti giù dal cielo
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SALVATORE QUASIMODO, Ed è subito sera




Luigi Fiorentino (Mazara del Vallo, 13 febbraio 1913 – Trieste, 2 agosto 1981), poeta e saggista italiano. La sua poesia, vocata al classicismo, risente qualche eco dei simbolisti francesi e di Mallarmé, di cui fu traduttore, in equilibrio tra la realtà e il mito, tra atmosfere surreali e motivi invece altamente reali: l’amore, la natia Sicilia, l’esperienza di guerra.


sabato 23 ottobre 2010

Il labbro amaro

 

CECÍLIA MEIRELES

RITRATTO

Non avevo questo viso che ho adesso,
così calmo, così triste, così pallido,
né questi occhi così vuoti,
né il labbro amaro.

Né avevo queste mani senza forza,
così silenziose, così fredde, così morte;
io non avevo questo cuore
che ora nessuno vede.

Non ho sentito il mutamento,
così semplice, così certo, così facile:
in quale specchio si è perduta
la mia immagine?

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Tutti prima o poi scrutando in uno specchio ci ritroviamo addosso qualche segno del tempo: una ruga, un capello grigio, una smagliatura… Fin che si è ancora relativamente giovani non ci si pensa, non ci si fa caso. Il tempo però prima o poi ci presenterà il suo conto. È il momento che racconta in questa poesia una delle voci più importanti del Modernismo brasiliano, Cecília Meireles, editrice e traduttrice di  Maeterlinck, García Lorca, Anouilh, Ibsen, Tagore, Rilke, Virginia Woolf, Puskin. Il suo autoritratto è l’impietosa constatazione dello scorrere degli anni, del fatto che la ragazza di un tempo non c’è più, che neppure l’amore più la rincorre. Amara poesia, amarissima. Allora, forza: su con le creme, avanti con le tinte…

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Theo Van Rysselberghe, “Donna in uno specchio”, 1907

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LA FRASE DEL GIORNO
Pochi sanno essere vecchi.
FRANÇOIS DE LA ROCHEFOUCAULD, Massime




Cecília Meireles de Carvalho Benevides (Rio de Janeiro, 7 novembre 1901 – 9 novembre 1964), poetessa, insegnante e giornalista brasiliana. Appartenne alla fase spiritualista del Modernismo brasiliano. Risaltano particolarmente nella sua poesia la tecnica e la ricchezza umana.



venerdì 22 ottobre 2010

Un piccolo diadema

 

ALESSANDRO PARRONCHI

DIADEMA

Queste poche parole
che mi restano, ultimi detriti
di un tempio, o di una casa, ormai distrutti,
e come i vetri di un caleidoscopio
ricompongo, disordino, tramuto
in immagini nuove,
potessi farne un piccolo diadema
umile ma gradito!

Lo innalzerei, Maria, alla tua fronte
se al tuo viso potessi avvicinarmi,
se non fosse il tuo viso alto nel cielo…

E il cielo, in uno dei giorni più bui
dell’anno, come questo in cui tra nembi
piovosi tutti i sogni si distruggono,
si slargasse in un altro cielo azzurro!

Il cielo della nostra fede, e il cielo
della gioventù nostra, alto sugli alberi,
di cui pure fu detto che sarà
rovesciato come un vecchio vestito.

(da Climax, 1990)

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“Da ultimo ho sentito che certe strade percorse in anni lontani, evocatrici di attimi mai completamente felici ma tuttavia diventate sacre per quel potere di evocazione, andavano ripercorse e rivissute, pur nello sfacelo in cui si trovano oggi. Mi sono accorto con grande sgomento che l’orizzonte per me non è più un punto di partenza ma di arrivo, che la poesia ha ristretto il suo significato cercando se possibile di spingere più a fondo il suo potere di richiamo a quel che era la vita nei momenti di divenire”: questo scriveva Alessandro Parronchi nella prefazione a “Diadema”, la sua antologia personale edita da Mondadori con poesie dal 1934 al 1997. E la poesia che dà il titolo alla raccolta è appunto l’esplicazione di questa sua tarda poetica, un’esaltazione della memoria come ultima salvezza, come ultima fuga dal tempo che inghiotte ogni cosa con il suo deprecato progresso, una negazione dei versi del Parronchi quarantenne di “Città”: “Vive solo chi di tutto si dimentica”. Tutto ciò che rimane della sua poesia, entrato ormai nella vecchiaia, sono solo “detriti”, vetri frantumati da ricomporre per elevarli al ricordo di un amore, se ancora splendono.

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Immagine da Pinterest

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LA FRASE DEL GIORNO
Guardando noi rimasti all’altra riva, / lontani, da una riva non più verde / risuscita la gioia rediviva / di una vita passata di cui nulla si perde.
ALESSANDRO PARRONCHI, Diadema. Antologia personale 1934-1997




Alessandro Parronchi (Firenze, 26 dicembre 1914 – 6 gennaio 2007), poeta, storico dell'arte e traduttore italiano. Con il suo stile ricercato è passato da un ermetismo  incantato a un intimismo che trae giovamento dalla consolazione della memoria: per questo le sue poesie sono oggetto di un meditato lavorio con cui il ricordo media l’emozione.


giovedì 21 ottobre 2010

Opinioni e congetture

 

UNA TAZZA DI TÈ

Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen.

Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare.

Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi. «È ricolma. Non ce n’entra più!».

«Come questa tazza» disse Nan-in «tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?»

(da 101 Storie Zen, a cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, Adelphi, 1973)

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La filosofia orientale attrae noi occidentali perché ci mostra il lato di noi che meno conosciamo: sempre così attenti all’azione e all’apparenza, curiamo poco il nostro essere. Lo Zen è la ricerca dell’io, l’esperienza che porta all’illuminazione attraverso la conoscenza di sé e il rifiuto del formalismo in favore di una semplicità di vita che possiamo ritrovare anche nel cristianesimo delle origini.

Il maestro Nan-in di questa storiella fotografa una diffusa figura della nostra società, quella di chi non mette mai in dubbio le proprie opinioni, non ragiona sulle cose che per preconcetti e partiti presi, si lascia portare dai pregiudizi e dai luoghi comuni – e può essere un insigne professore universitario come quello che si presenta davanti a Nan-in o un’umile cameriera appassionata di rotocalchi rosa. “Anche se mi convincerai, non mi convincerai” dice un personaggio del “Pluto” di Aristofane: invece sarebbe molto meglio porsi davanti all’altro con più rispetto e con meno arroganza, pronti a comprendere quello che ha da dire e a valutarlo serenamente, senza paraocchi ideologici. Insomma, essere un po’ più Zen anche noi.

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Fotografia © Lynn Kessel

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LA FRASE DEL GIORNO
Le opinioni si riproducono per divisione, i pensieri per germinazione.
KARL KRAUS, Detti e contraddetti




101 storie zen è un'opera di Nyogen Senzaki e Paul Reps del 1957 che raccoglie aneddoti, alcuni dei quali risalenti al diciannovesimo e ventesimo secolo, e kōan zen. In particolare 101 storie zen seleziona anche una serie di racconti tratti dal Shasekishū (Raccolta di pietre e di sabbia), composti tra il 1279 e il 1283 dal maestro buddhista zen giapponese Mujū Ichien.


mercoledì 20 ottobre 2010

L’anima negli occhi


GUSTAVO ADOLFO BÉCQUER

SAPPI – SE QUALCHE VOLTA LE TUE ROSSE LABBRA

Sappi - se qualche volta le tue rosse labbra
brucia invisibile atmosfera arroventata -
che l'anima che con gli occhi può parlare
anche con lo sguardo può baciare.

(da Rime, 1871 – Trad. Marina Cepeda Fuentes)

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“Guardarsi negli occhi è più indecente che andare a letto insieme” scrisse Boris Vian. Meno materiale, più romantico è Gustavo Adolfo Bécquer, che esprime un concetto simile in questi versi che formano la ventesima delle sue “Rimas”, opera travagliata, distrutta in un incendio e poi riscritta a memoria, pubblicata dagli amici del poeta l’anno successivo alla sua prematura scomparsa – Bécquer morì di tisi a 34 anni nel 1870.

E davvero spesso ci capita di compiere questa esperienza, di leggere negli occhi dell’amata o dell’amato tutta la sua silenziosa passione, di trovarci quello che neppure mille parole potrebbero esprimere, a conferma della celebre frase dell’evangelista Matteo: “Lucerna dell’anima è l’occhio”.

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Rafal Olbinski, “Confronto di similarità”

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LA FRASE DEL GIORNO
Come vive quella rosa che hai appuntato / sul tuo cuore? / Mai prima d'ora contemplai sulla terra / nel vulcano un fiore.
GUSTAVO ADOLFO BÉCQUER, Rime, XXII




Gustavo Adolfo Claudio Domínguez Bastida, più noto come Gustavo Adolfo Bécquer (Siviglia, 17 febbraio 1836 – Madrid, 22 dicembre 1870), poeta, scrittore e giornalista spagnolo. Il suo ideale poetico è lo sviluppo di una lirica intimista, espressa con sincerità, semplicità, musicalità di forma e facilità di stile, ispirata da Heine, Byron e De Musset e che a sua volta ispirerà i modernisti spagnoli.



martedì 19 ottobre 2010

L’altro lato della favola


ENRIQUE GRACIA TRINIDAD

SALTANDO DA JACOB A WILHELM GRIMM

      Tutti i passi hanno la forma del passato;
      di un passato senza bocca per baciare la sponda
      dell'altra esistenza bella che mai si è avuta,
      nonostante le gioie del cuore infiammato.

            Juan Eduardo Cirlot
Ricordo quel profumo
di quando ero solo una rana
dello stagno.
Uno strumento in più, e trascurabile,
dell'orchestra di anfibi che cantava alla notte
Una pozza, lo so, più che uno stagno,
ma dopotutto era la nostra casa,
un palazzo di giunchi,
umido focolare, senza sforzo
reso vivibile solamente con il canto,
con nient'altro che con salti e con fango.
Mai mancaron le mosche,
e che piacere guardare i girini
affacciarsi difilato alla vita.
Arrivarono poi le principesse,
con le risa giocose, con le sfere dorate,
che smarrivano solo perché io le trovassi.
A furia di baciarmi e di baciarle
smisi di essere quella rana
e lo stagno iniziò a essere un problema.
Ora giro vestito e scrivo versi,
nello stagno hanno fatto una piscina
ed è tutto pulito.
Saluto con rispetto,
faccio l'amore faccia a faccia,
ed è possibile che un giorno
qualcuno pensi che servo a qualcosa.
Non è male,
ma son stato più felice da rana.

(da Storie per tempi rari, 1995)

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Dissacra Enrique Gracia Trinidad, il poeta spagnolo già incontrato poco tempo fa con “Motivi per scrivere”: prende una classica favola dei fratelli Grimm e vi si intrufola impersonando il rospo che diventa principe dopo il bacio di una principessa. Avvolge la storia con umorismo e ironia, si addentra nella satira, strappa un sorriso qua e là, dapprima dolce, poi amaro. Ci spiega i problemi e i vantaggi della nuova condizione del principe-ranocchio: lo stagno divenuto piscina, l’inutilità dei suoi giorni vuoti, l’educazione “umana”, i saluti, il sesso. Insomma, Gracia Trinidad, che tanto si diverte in questi giochi se ha intitolato Controfavola” l’antologia che raccoglie le sue poesie dal 1973 al 2004, riesce a stravolgere il lieto fine che avevamo appreso da bambini, gettandovi disincanto a palate. E vissero tutti infelici e scontenti.

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Alejandro Jodorowsky, "Fábulas pánicas, 52"

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LA FRASE DEL GIORNO
A volte nella felicità c’è qualcosa di infinitamente triste.
NOËL COWARD




Enrique Gracia Trinidad (Madrid, 1950), scrittore e divulgatore culturale spagnolo. Dal 1992 si dedica quasi esclusivamente alla divulgazione culturale insegnando in diversi laboratori letterari. Ha diretto Poetas en vivo, programma di letture poetiche che ha creato per i Progetti Sociali di Caja Madrid dal 1996 al 2009.



lunedì 18 ottobre 2010

Voltandosi indietro


DAVID MARIA TUROLDO 

MEMORIA

È la memoria una distesa
di campi assopiti
e i ricordi in essa
chiomati di nebbia e di sole.
Respira
una pianura
rotta solo
dagli eguali ciuffi di sterpi:
in essa
unico albero verde
la mia serenità.

(da Io non ho mani, Bompiani, 1948)

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Ci vuole un asceta, un eremita, un monaco buddhista per arrivare a dichiarare ciò che dichiara David Maria Turoldo in questa poesia. Ci vuole una persona in pace con se stessa e con il mondo, capace di vedere nel proprio passato una vasta pianura dove spuntano qua e là dalla nebbiosa pianura del tempo radi sterpi tutti simili. Ci vuole appunto un prete, un frate come lo era padre Turoldo, sostenuto da una solida fede cristiana che gli consentiva di guardare indietro e di ritrovare la pianta rigogliosa e forte della sua serenità.

Ci ho pensato su un po’ quando mi sono chiesto “E io cosa vedrei, voltandomi indietro?”. Forse una mossa geografia di montagne e colline, vaste spiagge, grandi laghi, ampi specchi di mare. E non un solo alto albero, ma giardini affioranti dalla foschia: amori, dolori, rimpianti, gioie, successi e delusioni, dubbi e certezze, malinconie e nostalgie, illusioni e speranze…

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Illustrazione © TWTC

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LA FRASE DEL GIORNO
Guardando il passato possiamo leggere l’avvenire.
JEAN DE ROTROU




David Maria Turoldo, al secolo Giuseppe Turoldo (Coderno, 22 novembre 1916 – Milano, 6 febbraio 1992), presbitero, teologo, filosofo, scrittore e poeta italiano, membro dell'Ordine dei servi di Maria. Fu sostenitore delle istanze di rinnovamento culturale e religioso della Chiesa, di ispirazione conciliare.


domenica 17 ottobre 2010

Sul terzo pianeta del Sole

 

WISŁAWA SZYMBORSKA

LODE DELLA CATTIVA CONSIDERAZIONE DI SÉ

Una poiana non ha nulla da rimproverarsi.
Gli scrupoli sono estranei alla pantera nera.
I piranha non dubitano della bontà delle proprie azioni.
Il serpente a sonagli si accetta senza riserve.

Uno sciacallo autocritico non esiste.
La locusta, l'alligatore, la trichina e il tafano
vivono come vivono e ne sono contenti.

Il cuore dell'orca pesa cento chili
ma sotto un altro aspetto è leggero.

Non c’è nulla di più animale
della coscienza pulita
sul terzo pianeta del Sole.

(da “Grande numero”, 1976)

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Colpisce duro Wisława Szymborska, colpisce come lei sa, con ironia e con attenzione al senso dell’esistere, sempre in primo piano nella sua poetica, con il gusto dell’elenco di singole particolarità che le è proprio, con l’accettazione piena della vita e del mondo: “qualunque cosa ne pensiamo, spaventati dalla sua immensità e dalla nostra impotenza di fronte a esso, amareggiati dalla sua indifferenza – qualunque cosa noi pensiamo dei suoi spazi attraversati dalle radiazioni delle stelle… – questo mondo è stupefacente” come spiegò nel discorso in occasione del conferimento del Premio Nobel per la Letteratura del 1996.

Così non ci dobbiamo meravigliare del comportamento degli animali rapaci e delle belve, non ci dobbiamo stupire della loro ferocia, del loro parassitismo, delle loro azioni dettate dall’istinto naturale. Gli animali sono come sono e così devono essere. Ci dobbiamo preoccupare quando questa loro “leggerezza” si sposta nelle nostre coscienze, quando a comportarci come animali – non sto a fare esempi, le cronache delle ultime settimane ne sono già piene – siamo noi uomini e donne. Allora diventiamo “sciacalli” e “belve”, “mostri” da telegiornale. Senza che gli animali ne abbiano colpa, qui, su questa Terra, “terzo pianeta del Sole”.

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Fotografia © Carl Chapman / Alaskan Wildlife

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LA FRASE DEL GIORNO
Non conosco la parte che recito. / So solo che è la mia, non mutabile.
WISŁAWA SZYMBORSKA, Grande numero




Wisława Szymborska (Kórnik, 2 luglio 1923), poetessa e saggista polacca, insignita del Premio Nobel per la Letteratura nel 1996 “per una poesia che, con ironica precisione, permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti d'umana realtà”.


sabato 16 ottobre 2010

Pomeriggio lungo l’Adda


DIEGO VALERI

QUEL POMERIGGIO DOLCE


Quel pomeriggio dolce
si andava lungo il fiume.
E ci sorprese a un tratto,
dall'altra riva,
un vasto coro, un alto
rammarichio di tortore selvagge
raccolte lì, chissà come, da quando.

Il bel fiume era l'Adda
errabonda per prati e campi,
tra leggiere boschine di pioppi.
Sopra era teso un cielo senza nubi,
appena nebuloso:
il bel cielo di Lombardia,
così bello, così in pace.


(da “Calle del vento”, 1975)

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Dopo Vaprio e Cassano, l’Adda comincia a scorrere come un placido fiume, superate le rapide e le bizze di quando passa incassato tra sponde collinose, antiche centrali elettriche e scenari rupestri usati come sfondo da Leonardo da Vinci nei suoi dipinti. Nel Lodigiano attraversa la pianura tra i pioppeti, in attesa di confluire nel Po. È lì probabilmente che Diego Valeri torna con la memoria in questa poesia che ricorda un pomeriggio dolce, una passeggiata tranquilla lungo l’alzaia. Camminando così, senza fretta e senza meta, sotto un cielo sereno che ricorda la celebre definizione manzoniana e che contribuisce a creare quell’atmosfera di pace che si respira: neppure l’improvviso schiamazzare delle tortore sulla riva opposta riesce a spezzare l’incanto.

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Fotografia © Daniele Riva

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LA FRASE DEL GIORNO
Pioppi e betulle di tremula fronda, accompagnan de l’acque il fluire / quando ne’ rami s’impigliano gli astri, in quella pace vorrei morire.
ADA NEGRI, I canti dell’isola




Diego Valeri (Piove di Sacco, 25 gennaio 1887 – Roma, 27 novembre 1976), poeta, traduttore e accademico italiano, fu ordinario di Letteratura Francese all’Università di Padova per oltre vent’anni, tranne nel periodo 1943-45 quando riparò in Svizzera come rifugiato politico.


venerdì 15 ottobre 2010

Cronaca di un addio

 

EVGENIJ EVTUŠENKO

NON T’AMO PIÙ

Non t'amo più... È un finale banale.
Banale come la vita, banale come la morte.
Spezzerò la corda di questa crudele romanza,
farò a pezzi la chitarra: ancora la commedia perché recitare!

Al cucciolo soltanto, a questo mostriciattolo peloso, non è dato capire
perché ti dai tanta pena e perché io faccio altrettanto.
Lo lascio entrare da me, e raschia la tua porta,
lo lasci passare tu, e raschia la mia porta,

C'è da impazzire, con questo dimenio continuo...
O cane sentimentalone, non sei che un giovanotto...
Ma io non cederò al sentimentalismo.
Prolungar la fine equivale a continuare una tortura.

Il sentimentalismo non è una debolezza, ma un crimine
quando di nuovo ti impietosisci, di nuovo prometti
e provi, con sforzo, a mettere in scena un dramma
dal titolo ottuso "Un amore salvato".

È fin dall'inizio che bisogna difendere l'amore
dai “mai” ardenti e dagli ingenui “per sempre!”.
E i treni ci gridavano: “Non si deve promettere”.
E i fili fischiavano “Non si deve promettere!”.

I rami che s'incrinavano e il cielo annerito dal fumo
ci avvertivano, ignoranti presuntuosi,
che è ignoranza l'ottimismo totale,
che per la speranza c'è più posto senza grandi speranze.

È meno crudele agire con sensatezza e giudiziosamente soppesare gli anelli
prima di infilarseli, secondo il principio dei penitenti incatenati.
E' meglio non promettere il cielo e dare almeno la terra,
non impegnarsi fino alla morte, ma offrire almeno l'amore d'un momento.

È meno crudele non ripetere “ti amo”, quando tu ami.
È terribile dopo, da quelle stesse labbra
sentire un suono vuoto, la menzogna, la beffa, la volgarità
quando il mondo falsamente pieno, apparirà falsamente vuoto.

Non bisogna promettere... L'amore è inattuabile.
Perché condurre all'inganno, come a nozze?
La visione è bella finché non svanisce.
È meno crudele non amare, quando dopo viene la fine.

Guaisce come impazzito il nostro povero cane,
raspando con la zampa ora la mia, ora la tua porta.
Non ti chiedo perdono per non amarti più.
Perdonami d'averti amato.

1966

(da Ecco quel che mi succede, 1966)

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Talvolta l’amore finisce. Spesso l’amore finisce. E ancor di più quando è un sentimento incerto e mutevole, come quello che canta il poeta russo Evgenij Evtušenko: vi si alternano momenti di timidezza e atteggiamenti spavaldi, solitudini e dolcezze. Qui siamo alla cronaca di un addio del poeta trentatreenne, dove lo strazio del distacco è sottolineato dalla presenza del cucciolo conteso tra i due ex innamorati, come un disperato deus ex machina che intervenga a tentare di risolvere la tragedia.

Inevitabile forse che l’amore di Evtušenko riflettesse la sua vita, la sua passione,i sentimenti di ribellione e di speranza che lo portarono alla condanna dello stalinismo e dei suoi crimini, le audaci prese di posizione che gli costarono la “missione creativa” siberiana di Bratsk, dove fu costretto ai lavori forzati per la costruzione della nuova centrale idroelettrica. Lasciamo allora Evtušenko fuori da quella porta, dopo l’addio: “tutto ciò che è di ieri / tutto ciò che inacidisce / lo catapulta in nessun dove…”

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Fotografia © Carrie & Danielle

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LA FRASE DEL GIORNO
Ho paura che tu non mi ami, ho paura di amarti.
EVGENIJ A. EVTUŠENKO, Il vento del domani




Evgenij Aleksandrovič Evtušenko, nato Gangnus (Zima, 18 luglio 1932) poeta e romanziere russo. Tra i poeti più significativi della generazione successiva alla morte di Stalin, ha unito nella sua opera la rivendicazione della libertà di espressione e la denuncia del perdurare, oltre la scomparsa del dittatore, dello stalinismo.


giovedì 14 ottobre 2010

Cos’è l’arte? (XV)

 

JEAN-AUGUSTE-DOMINIQUE INGRES

“I capolavori non sono fatti per sbalordire.
Sono fatti per persuadere, per convincere,
per entrare in noi attraverso i pori”

Jean-Auguste-Dominique Ingres, “La Grand”
olio su tela, 1814/ Parigi, Louvre

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LEONARDO DA VINCI

“La pittura è una poesia che si vede e non si sente,
e la poesia è una pittura che si sente e non si vede.
Adunque queste due poesie, o vuoi dire due pitture,
hanno scambiati i sensi, per i quali esse dovrebbero
penetrare all'intelletto”

Leonardo da Vinci, “Bacco”
olio su tavola, 1515 / Parigi, Louvre

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JOHN CONSTABLE 

“Non vediamo nessuna cosa veramente
fino a che non la capiamo”

 

John Constable , “Wivenhoe Park”
olio su tela, 1816 / Washington, National Gallery of Arts

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LA FRASE DEL GIORNO
L’arte è un’amante gelosa.

RALPH WALDO EMERSON, La condotta della vita