sabato 31 maggio 2008

Studiare il latino


Periodicamente si infiamma il dibattito sulla necessità di insegnare il latino nelle scuole superiori. C'è chi vorrebbe confinarlo nei licei classici, considerandolo una lingua morta e inutile. Ora è il turno della associazione "Treellle", che ha svolto uno studio sull'insegnamento di latino e greco nelle scuole di vari paesi del mondo. Gli studenti del classico sono in Italia il 10% della popolazione scolastica, quelli che studiano la lingua di Cicerone sono ora il 41%, comprendendo anche i licei scientifici e gli istituti magistrali. Secondo i ricercatori però l'imposizione spinge i ragazzi ad applicarsi controvoglia: 400.000 hanno un debito formativo. In America e in Francia, le percentuali di studenti che scelgono il latino e il greco sono inferiori al 3%: secondo "Treellle" lo studiano meglio di noi perché lì è una materia facoltativa.

Molti ribattono che il latino non è una lingua morta, anzi si è ammodernata, è sbarcata su Internet ed è un esperanto migliore dell'inglese per comunicare: la sua vitalità è testimoniata dalle traduzioni di termini moderni: il computer diventa "computatrum", il tennis "teniludium", l'aspirapolvere "pulveris hauritorium". Io non amo queste contaminazioni: il mio latino è quello di Catullo e Cesare, di Seneca e Plauto, di Terenzio e Properzio, lingua "viva" perché dilatata su oltre un millennio, dalla fondazione di Roma, nell'VIII secolo avanti Cristo all'Alto Medioevo.

Il latino è un ottimo insegnante: gran parte della lingua italiana deriva dalla sua struttura e l'etimologia - come anche meglio accade con il greco antico - aiuta. Infatti in Grecia lo studio della lingua dei padri è obbligatoria in tutte le scuole. Di più, la presenza delle declinazioni e la costruzione diversa delle frasi, da interpretare e rimettere insieme quasi come un puzzle di parole, sono un ottimo strumento che agevola i ragionamenti logici. Purtroppo oggi impera questa voglia di spianare le strade, di annullare il passato: la storia insegnata all'ultimo anno dei licei è ormai solo quella del Novecento, sembra che soltanto nel passato recente siano accadute le cose, sembra che solo di quel che si ha memoria diretta ci si debba interessare.

Il problema non sta nell'insegnamento del latino: se vogliamo che gli studenti si appassionino dobbiamo fare in modo che gli insegnanti non siano "ingessati", ma che entusiasmino gli allievi. Devono far capire che impariamo per la vita, non per la scuola - cruccio che già Seneca esprimeva all'amico Lucilio. Altrimenti, dopo il latino, toccherà all'italiano, alla storia, alla matematica...


Jacques-Louis David, "Les Sabines"


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LA FRASE DEL GIORNO
Il passato, come un paesaggio attraverso cui si cammini, si cancella a misura che ce ne allotaniamo.
ALEXANDRE DUMAS PADRE, Il conte di Montecristo

venerdì 30 maggio 2008

La poesia secondo Ungaretti


GIUSEPPE UNGARETTI

COMMIATO


Gentile
Ettore Serra
poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento
Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso


(da Il porto sepolto, 1916)


Ettore Serra è un giovane ufficiale del Commissariato. Sarà lui a far stampare e pubblicare a Udine nel dicembre del 1916 la prima edizione del "Porto sepolto" di Giuseppe Ungaretti. Questa poesia, scritta a Locvizza due mesi prima, suona come dedica all'amico, conosciuto una mattina per le strade di Versa: "Non ebbi il coraggio di non confidarmi a quel giovine ufficiale che mi domandò il nome, e gli raccontai che non avevo altro ristoro se non di trovarmi e cercarmi in qualche parola e ch'era il mio modo di progredire umanamente". Il tenente Serra prende il tascapane del poeta, dove erano raccolti i versi scritti su vecchi foglietti, su cartoline di franchigia, su spazi bianchi di lettere ricevute, su margini di giornali e li tramuta prima in bozze, che mostrerà a Ungaretti attraversando il San Michele e poi nella prima edizione.

Così Ungaretti spiega la sua poetica - e la lirica sarà posta a chiusura del volume, a "Commiato", appunto: la poesia è parola che fa fiorire gli uomini e il mondo. È una meraviglia che consente di guardare con occhi nuovi la realtà. Nell'edizione del 1923 dell'"Allegria" è lo stesso poeta a spiegare: "Ho sempre distinto tra vocabolo e parola e credo che la distinzione sia del Leopardi. Trovare una parola significa penetrare nel buio abissale di sé senza turbarne né riuscire a conoscerne il segreto". Quindi varcare i confini della propria inquietudine attraverso la poesia, illuminarla con la sua piccola lucerna senza però arrivare a scalfirne il mistero. "Il porto sepolto" non è altro che ciò che in noi rimane di segreto e di indecifrabile. A Ettore Serra, che da civile si occupava di perlustrazioni sottomarine, non poteva certo dispiacere questo altro lavoro di scavo, che non esplorava le profondità marine, ma quelle interiori, quegli abissi aperti dentro di noi.



"Il porto sepolto", Edizione del 1923


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LA FRASE DEL GIORNO
È mia convinzione che nessuno capisca fino in fondo gli elaborati stratagemmi ai quali ricorre per evitare l'ombra sinistra della conoscenza di sé.
JOSEPH CONRAD, Lord Jim




Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1º giugno 1970) è uno dei tre grandi poeti dell’Ermetismo italiano. Trasferitosi a Parigi nel 1912, prese parte alla Prima guerra mondiale nelle trincee del Carso e poi in Champagne. Dal 1935 al 1942 insegnò in Brasile e dal 1947 al 1965 fu professore di letteratura moderna alla Sapienza.


giovedì 29 maggio 2008

Juan Ramón Jiménez


Il 29 maggio 1958 moriva a Puerto Rico il poeta spagnolo Juan Ramón Jiménez. Era nato a Huelva, in Andalusia, nel 1881.

La poesia di Jiménez, Premio Nobel per la Letteratura nel 1956, è un viaggio interiore alla ricerca dell'assoluto nella bellezza. E questo percorso è seguito con ansia di scoperta, è un ricostruire come a voler radunare i frantumi di uno specchio o riconoscere il mare dai suo riflessi. Il mare, simbolo stesso della bellezza assoluta, è uno dei temi più cari a Jiménez, protagonista in "Diario de un poeta reciencasado", opera del 1917, che racconta della traversata oceanica per raggiungere l'amata negli Stati Uniti. Un mare che assurge toni da creatura, con i suoi odi e i suoi amori umani.

La passione per Zenobia, conosciuta a Madrid nel 1912 e sposata quattro anni più tardi a New York, porta anche l'amore al centro dell'ispirazione e della poesia, incarnando quei riflessi ideali. Jiménez ora conosce la strada per muoversi tra la realtà e il sogno, tra il buio e la luce, tra il vero e il falso. Segue questa via con la compagna fedele, con la Musa, fino alla scoperta, nell'ultima raccolta "Animale di fondo", del 1948: quell'assoluto che ha cercato per tutta la vita è Dio, in uno scambio continuo. Un Dio insito nell'anima del poeta, quell'infinito che aveva appena intravisto in "La estación total": "L'infinito /sta dentro. Io sono / l'infinito raccolto. /Lei, Poesia, Amore, il centro / indubitabile".


Jiménez in un francobollo spagnolo del 1982


POESIE DI JUAN RAMON JIMENEZ

da "Diario di poeta e di mare" (1917):

CIELO

Cielo, parola grande
quanto il mare
che ci lasciamo dietro, che scordiamo
.


*

MARE

Solo un momento! Mare, poter essere
ogni istante diverso, come te,
forte, senza cadute -
Mare calmo, - di cuore freddo e di anima eterna -
mare, ostinata effigie del presente!


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da "Eternità" (1918):

Venne, dapprima, pura,
vestita d'innocenza.
E l'amai come un bimbo.

Dopo s'andò coprendo
di non so quali vesti.

E presi, senza saperlo, ad odiarla.
Fu infine una regina,
sfarzosa di tesori...
Che ira, quale amarezza insensata!

...Ma ecco, s'andò svestendo.
E io le sorridevo.

Rimase con la tunica
dell'innocenza antica.
Credetti ancora in lei.

E si tolse la tunica,
apparì tutta nuda... Oh poesia nuda,
passione della mia vita,
ora mia per sempre!

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da "Pietra e cielo" (1919)

Che lacerazione immensa,
quella della mia vita nel tutto
per stare, con tutto me stesso,
in ogni cosa;
per non smettere di stare
con tutto me stesso, in ogni cosa!



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da "Animale di fondo" (1948)

COSCIENZA PIENA

Tu mi porti, coscienza piena, tu dio desiderante,
per tutto il mondo - In questo terzo mare
quasi odo la tua voce; la voce del vento
che occupa totalmente il movimento,
e dei colori e delle luci
marini ed eterni.
La tua voce di fuoco bianco
nella totalità dell'acqua, della nave, del cielo
che con delizia delinea le rotte
e fulgidamente m'incide l'orbita mia sicura
di corpo nero
con il diamante lucido entro sé.





La casa natale del poeta a Moguer,
ora Museo Zenobia y Juan Ramon Jiménez


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LA FRASE DEL GIORNO
Innamorato del silenzio, il poeta non può fare altro che parlare.
OCTAVIO PAZ, Corrente alterna




JimenezJuan Ramón Jiménez (Palos de Moguer, 24 dicembre 1881 - San Juan, Portorico, 29 maggio 1958), poeta spagnolo premiato con il Nobel nel 1956, fu uno dei principali esponenti della Generazione del ’14 e del Modernismo. La sua ricerca poetica lo portò a privilegiare la poesia nuda ed essenziale, fatta solo di immagine e di parola al di là della musicalità esteriore.


mercoledì 28 maggio 2008

Michail Lermontov

In un bosco di betulle sulle pendici del monte Mashuk, presso la città termale di Pjatigorsk, il 27 luglio del 1841, si svolse un duello tra un ufficiale noto per la sua millanteria, il maggiore Nikolaj Martynov, e un suo ex compagno di corso, ufficiale degli ussari. Fu questi a rimanere ucciso: quel ventisettenne era anche un poeta e drammaturgo. Si chiamava Michail Jurevic Lermontov ed era molto amato dai suoi commilitoni, che narravano di come scrivesse poesie anche giocando a scacchi, tra una mossa e l'altra dell'avversario.

Nel periodo trascorso a San Pietroburgo aveva conosciuto l'alta società - la stessa descritta da Tolstoj in "Guerra e pace" - e l'aveva ritratta nell'opera "Un ballo in maschera". Ma la sua fama divenne ancora più grande quando denunciò con la poesia "La morte del poeta", l'uccisione da parte degli uomini dello zar di Alexandr Puskin, amatissimo poeta russo. I versi furono tramandati nella vastità del continente russo, passavano di bocca in bocca, imparati a memoria, riprodotti in innumerevoli copie. Lermontov viene esiliato nel Caucaso, dove si interessa della poesia popolare non scritta e pubblica il poema "Il demone", che descrive una personalità forte e ribelle, solitaria e amante della libertà. In pratica, proprio Lermontov, un uomo soggiogato dal proprio "demone", che lo allontana dalla massa informe e debole verso un aristocratico anticonformismo che lo porta però a inutili scandali, a ribellioni orgogliose che, come si è visto, lo porteranno al duello finale. In "Ismail-Bey" scrive: "Io pensai: come è misero l'uomo! Che cosa vuole?... Il cielo è puro e quaggiù c'è posto per tutti; pure senza motivo e senza necessità solitario egli vive di odio. Perché?"

La sua poesia è quindi quella di un solitario che si astrae dalla moltitudine ma che non riesce comunque a cogliere l'essenza della vita. Un solitario che vuole esserlo, ma che soffre per questa sua solitudine, che si barcamena tra sogno ideale e realtà, tra scetticismo e protesta disperata, come testimonia anche il notevole romanzo che chiude le sue opere, "Un testimone del nostro tempo": lì si trovano i germi dell'ossessiva introspezione che sfocerà nei personaggi di Dostoevskij.


SOLITUDINE

Orrendo trarre solitari
di questa vita le catene.
A spartire la gioia ognuno è pronto,
ma nessuno a spartire la tristezza.
Solo qui sono come un re celeste,
costretti in cuore i miei dolori,
e vedo, docili al destino,
come visioni gli anni dileguare;
e tornano essi, con dorato,
ma con lo stesso antico sogno;
e vedo una solinga tomba
che aspetta: a che indugiare sulla terra?
Di ciò nessuno sarà afflitto:
s'allegrerà (ne sono certo)
la gente più della mia morte
che non, già, della mia nascita.


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IL SOGNO

Nel Daghestan scosceso bruciava il mezzogiorno,
ed io giacevo inerte dal piombo trapassato:
l'orribile ferita bruciava ancora intorno;
a goccia a goccia il sangue colava inesorato.
Solo giacevo steso nella sabbiosa valle.
Si stringevano le rupi frastagliate e contorte:
il sole divampava sulle loro vette gialle
e su me, chiuso in un sonno tenace come morte.
Sognavo... Nel mio luogo natale, a tarda sera,
ferveva un gran banchetto fra ceri sfavillanti:
giovani donne, cinte da fresca primavera
di fiori, discorrevano di me gaie e festanti.
Ma sola, pensierosa, ignara del rumore
delle altre, una sedeva stretta in silenzio arcano:
in un funereo sogno pareva il giovane cuore
sperduto e trasportato chissà dove, lontano...
Essa un profondo borro del Daghestan sognava,
dove una forma nota giaceva irrigidita:
fumava, nereggiando nel petto, una ferita,
e il sangue a goccia a goccia, seccando al sole, colava.



Piotr Zabolosky, "Ritratto di Lermontov", 1837



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LA FRASE DEL GIORNO
Questa è la storia della mia gioventù. Quando ci ripenso mi appare breve come una notte d'estate. Un po' di musica, un po' di spirito, un po' d'amore, un po' di vanità... ma è stata bella, ricca e multicolore come una festa eleusina.
HERMANN HESSE, Peter Camenzind




Michail Jur'evič Lermontov (Mosca, 3 ottobre 1814 – Pjatigorsk, 27 luglio 1841), poeta, drammaturgo e pittore russo. Figura di spicco del romanticismo, è considerato uno tra i maggiori scrittori del XIX secolo. Militare di carriera, durante la sua breve vita pubblicò soltanto un volume di poesie, Versi, e il romanzo Un eroe del nostro tempo. Morì in duello.




martedì 27 maggio 2008

Crespi d'Adda


Sulla sponda orientale dell'Adda, nel comune di Capriate San Gervasio, in provincia di Bergamo, sorge una meravigliosa "macchina del tempo", considerata dall'UNESCO "Patrimonio mondiale dell'umanità": è il villaggio operaio di Crespi d'Adda, un museo all'aperto di archeologia industriale.

A partire dal 1892, dall'idea di Silvio Benigno Crespi, figlio del fondatore dell'azienda e direttore dello stabilimento di Capriate, sorse un villaggio di case tutte uguali, poste alla stessa distanza e in file ripetitive su tre viali paralleli alla fabbrica ed al fiume. Tetti spioventi, coppi rossi, finestre incorniciate da mattoni, persiane di legno verniciate di verde, ogni edificio era destinato ad ospitare una o due famiglie di operai, raramente tre, con ingressi indipendenti. A poco a poco si realizzò una cittadella industriale, simile a quelle che il Crespi aveva visto nei suoi viaggi in Inghilterra e in Germania, a Manteceun, a Willebroek e a Essen.
Le case a due piani furono subito sovrastate dai simboli del potere: la chiesa, completata nel 1893, esatta riproduzione della bramantesca Santa Maria in Piazza di Busto Arsizio, luogo di origine dei fondatori, e la villa padronale, realizzata in stile neomedievale con torri merlate, scuderie e giardini, eretta nel 1897. Lavatoi, bagni pubblici, forni per la pasta e il pane, asilo, scuole, caserma dei vigili del fuoco e addirittura un piccolo ospedale completarono il villaggio prima del nuovo secolo.
L'acqua ricavata da un canale industriale, aperto per un chilometro a fianco dell'Adda, forniva elettricità allo stabilimento, che in breve passò da una lavorazione di 5.000 fusi a una di 20.000.


Il villaggio operaio di Crespi in una foto d'epoca

"La casa operaia modello deve contenere una sola famiglia ed essere circondata da un piccolo orto, separata da ogni comunione con altri..." spiegò Silvio Benigno Crespi ad un convegno milanese nel 1894: in effetti il prezzo per questa autonomia era una specie di controllo sui lavoratori, che dovevano mantenere sempre ordinati i giardini ed erano inquadrati sin dall'asilo in una logica produttiva. Allo svago pensarono la Società Sportiva Uniti e Forti, fondata nel 1910, la banda composta dagli operai, le gite sociali ed il teatro. I sindacati erano del tutto assenti: quando sorsero le leghe bianche e rosse, Silvio Benigno Crespi, divenuto nel frattempo senatore, fece trasferire in paese la caserma dei Carabinieri e aumentò la sorveglianza. Durante il fascismo, con il progresso del settore, ai margini dell'abitato sorsero le case per gli impiegati, asimmetriche, con il ceppo dell'Adda a simulare il bugnato su elementi di legno, maiolica e calce.

Oggi, visitare Crespi d'Adda è compiere un tuffo nel passato: si passeggia per quei viali ordinati, si osservano gli stabilimenti, le ciminiere, quei giardini perfettamente curati, le architetture, i fregi. Si guarda il castello padronale riflettersi nelle acque verdi del fiume con le sue colonne e le sue decorazioni. Si entra nel cimitero e si onorano quei cippi tutti uguali, ogni pietra un operaio o una moglie o un figlio; si guarda sullo sfondo il ciclopico mausoleo dei Crespi, che ospita chi coraggiosamente riuscì a mettere in pratica questa utopia.

Crespi, dove il tempo sembra essersi fermato.


Villa Crespi vista dall'Adda


LINK:




COME RAGGIUNGERE CRESPI:

Autostrada A4 Milano - Venezia: Uscita di Capriate, a 2,5 km
(da aprile a ottobre la domenica pomeriggio a Crespi è interdetto l'accesso ai veicoli, parcheggio a 800 metri)

Si possono percorrere anche le strade provinciali:
SP2 Monza - Trezzo, attraversare il ponte sull'Adda
SP 170 Calusco - Capriate

In bicicletta o a piedi lungo l'Adda o il Canale della Martesana: attraversare la passerella al Santuario di Concesa di Trezzo e dirigersi verso destra.


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LA FRASE DEL GIORNO
L'arte trova la propria perfezione all'interno e non all'esterno di se stessa. Essa non va giudicata secondo alcun criterio esterno di somiglianza. È un velo, piuttosto che uno specchio.
OSCAR WILDE, La decadenza della menzogna

lunedì 26 maggio 2008

Gioia del sogno


JUAN RAMÓN JIMÉNEZ

GIOIA DEL SOGNO


Gioia del sogno,
che mai uguagliò
nessuna gioia reale!

- E che triste gioia
quotidiana, questa
a cui ci adattiamo, dimenticando
l'altra, l'altra, l'altra;
che sa, ogni giorno, di non essere più che
vano seme del fiore del sogno! -

(da Eternità, 1917)


Il poeta spagnolo Juan Ramón Jiménez esprime così questa impressione fugace, l’inesprimibile sensazione di avere sognato ma di non riuscire ad afferrarne l‘essenza, in pochi versi. Saranno pure illusori i sogni, fantasmi che popolano le nostre notti, ingannevoli e falsi, ma sanno ammannirci dolcezza, renderci quasi divini.




Pablo Picasso, "Le rêve", 1932



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LA FRASE DEL GIORNO
Vivere: portare il proprio io dolente per il mondo.
MILAN KUNDERA, L'immortalità




JimenezJuan Ramón Jiménez (Palos de Moguer, 24 dicembre 1881 - San Juan, Portorico, 29 maggio 1958), poeta spagnolo premiato con il Nobel nel 1956, fu uno dei principali esponenti della Generazione del ’14 e del Modernismo. La sua ricerca poetica lo portò a privilegiare la poesia nuda ed essenziale, fatta solo di immagine e di parola al di là della musicalità esteriore.


domenica 25 maggio 2008

Rose

 

GIORGIO CAPRONI

CONCESSIONE


Buttate pure via
ogni opera in versi o in prosa.
Nessuno è mai riuscito a dire
cos'è, nella sua essenza, la rosa.

(da Res amissa, 1991)

 

ANGELUS SILESIUS

LA ROSA


La rosa che il tuo occhio esteriore qui vede,
dall'eternità ha così fiorito in Dio.
Senza perché.
La rosa è senza perché: fiorisce perché fiorisce,
non bada a se stessa, non chiede se la si vede.

(da Il pellegrino cherubico, 1657)

 

FEDERICO GARCÍA LORCA

ERA SBOCCIATA LA ROSA


Era sbocciata la rosa
alla luce del mattino,
così rossa di tenero sangue
che la rugiada si scostava;
così accesa sullo stelo
che la brezza si bruciava.
E che alta! E come splende!
Era tutta sbocciata!

(da Donna Rosita nubile, 1935)


ANONIMO DEL "DE ROSIS"

LA NASCITA DELLE ROSE


E, meravigliato, guardavo come le rose siano presto rapite
dall'età fuggitiva e come già sul nascere appassiscano.
ed ecco, mentre parlo, è caduta la rossa chioma
del rutilante fiore e la terra s'ammanta d'un rosso palpitante.
Tante bellezze e tante vite e vari mutamenti
un solo giorno dischiude, un solo giorno conclude.
Ci lamentiamo, o Natura, che tanto breve sia la grazia dei fiori;
appena li hai mostrati ai nostri occhi, subito riprendi i tuoi doni.
Quanto è lungo un giorno, tanto lunga è la vita delle rose:
mentre sbocciano già l'inseparabile vecchiaia le opprime.
Quella che il fiammeggiante Lucifero ha appena visto schiudersi,
tornando a tarda sera, la rivede vecchia.
Ma, sebbene destinata a morire tra breve, buon per lei
che nell'avvicendarsi prolunga la sua vita.
Cogli le rose, o vergine, finché fresco è il fiore e fresca è la giovinezza,
e ricordati che allo stesso modo s'affretta la tua vita.

(Traduzione di Francesco Della Corte)


La rosa ha una bellezza immotivata, oggettiva: forse è la ricompensa per la sua caducità. La sua valenza simbolica della transitorietà di ogni bene e, in primis, della bellezza, ha da sempre ispirato i poeti, assai sensibili a questo tema.

Giorgio Caproni ne fa un inno alla perfezione della natura, alla sua elementare ma contemporaneamente complessa struttura. Al confronto della rosa, ogni opera umana diventa nulla:

Il tedesco Angelus Silesius ne vede invece quel suo essere parte del disegno di Dio, non estranea ma indifferente alla presenza dell'uomo: un'immotivata adesione allo spirito creatore - la rosa, del resto, nella religione cristiana, è il fiore simbolo di Maria:

La rosa è bellezza, è sensualità: rappresenta l'amore psichico e quello fisico, rappresenta la segretezza della sessualità femminile; già gli antichi la avevano eletta fiore sacro ad Afrodite. Federico García Lorca ne coglie questo aspetto:

Gli autori classici latini e greci notavano invece quel suo effimero fiorire, quella caduca presenza, e non mancavano di paragonarne malinconicamente la breve vita con l'esistenza umana. Celebre è un anonimo componimento del II secolo dopo Cristo, il "De rosis nascentibus":


Un link interessante:

Museo Giardino della Rosa Antica
Montagnana di Serramazzoni (MO)

http://www.museoroseantiche.it/



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LA FRASE DEL GIORNO
Riviverlo un'altra volta, impossessarmene e conservarlo: questo è adesso il mio concetto di felicità.
HERMANN HESSE, Amore, "Lettera di un giovane"




Giorgio Caproni (Livorno, 7 gennaio 1912 – Roma, 22 gennaio 1990), poeta, critico letterario e traduttore italiano. Partito come preermetico attirato da uno scabro espressionismo, approdò a un ermetismo rivestito di un impressionismo idillico. Nella sua poesia canta soprattutto temi ricorrenti (Genova, la madre e Livorno, il viaggio, il linguaggio), unendo raffinata perizia metrico-stilistica a immediatezza e chiarezza di sentimento.


Angelus Silesius, nato Johannes Scheffler e anche italianizzato in Silesio (Breslavia, 25 dicembre 1624 – 9 luglio 1677), poeta e mistico cattolico tedesco. La sua raccolta Il pellegrino cherubico è considerata come uno dei monumenti poetici della mistica barocca del Seicento tedesco. 


Federico García Lorca (Fuente Vaqueros, 5 giugno 1898 – Víznar, 19 agosto 1936), poeta e drammaturgo spagnolo). Voce tra le più originali del Novecento spagnolo, amico di Salvador Dalí e Luis Buñuel, partecipò ai vari tentativi modernisti, specialmente impressionisti. Morì durante i primi giorni della guerra civile, fucilato dai franchisti.


sabato 24 maggio 2008

Una guerra, due poeti



ARDENGO SOFFICI
SUL KOBILEK

Sul fianco biondo del Kobilek
Vicino a Bavterca,
Scoppian gli shrapnel a mazzi
Sulla nostra testa.
Le lor nuvolette di fumo
Bianche, color di rosa, nere
Ondeggiano nel nuovo cielo d'Italia
Come deliziose bandiere.
Nei boschi intorno di freschi nocciuoli
La mitragliatrice canta,
Le pallottole che sfiorano la nostra guancia
Hanno il suono di un bacio lungo e fine che voli.
Se non fosse il barbaro ondante fetore
Di queste carogne nemiche,
Si potrebbe in questa trincea che si spappola al sole
Accender sigarette e pipe;
E tranquillamente aspettare,
Soldati gli uni agli altri più che fratelli,
La morte; che forse non ci oserebbe toccare,
Tanto siamo giovani e belli.


(da Kobilek - Giornale di battaglia, Vallecchi, 1918)

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CLEMENTE REBORA
VOCE DI VEDETTA MORTA


C'è un corpo in poltiglia
con crespe di faccia , affiorante
sul lezzo dell'aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
Affar di chi può e del fango.
Però se ritorni
tu uomo, di guerra
a chi ignora non dire;
non dire la cosa, ove l'uomo
e la vita s'intendono ancora.
Ma afferra la donna
una notte dopo un gorgo di baci,
se tornare potrai;
soffiale che nulla nel mondo
redimerà ciò ch'è perso
di noi, i putrefatti di qui;
stringile il cuore a strozzarla:
e se t'ama, lo capirai nella vita
più tardi, o giammai.

(da Le poesie, Vallecchi, 1947)


Due poeti, due modi opposti di intendere la stessa guerra. Il primo, Ardengo Soffici, pittore, fondatore di Lacerba, è un fervente interventista e sul suo giornale auspica un attacco alla minaccia germanica, quasi presagendo l’avvento del Terzo Reich di lì a vent’anni. Coerentemente, allo scoppio della prima guerra mondiale si arruola volontario e prende parte alle numerose battaglie sulla Bainsizza, restando anche ferito. Aderirà al fascismo e firmerà anche il manifesto sulle leggi razziali. La sua poesia “Sul Kobilek” trasuda futurismo, l’uso delle immagini è quello, inneggia alla guerra come “sola igiene del mondo”, la fa addirittura sembrare bella tanto da arrivare a inneggiare alla morte e a sfidarla in nome di una splendida gioventù.

Il secondo, Clemente Rebora, quando scoppia la guerra ha trent’anni e vive con una pianista russa; è richiamato con il grado di sottotenente di fanteria e inviato sul Podgora. Ferito anch’egli da un colpo di obice da 305, riporta un trauma nervoso e passa per tre anni da un ospedale all’altro prima di essere riformato per infermità mentale. Nel 1936 dopo una lunga crisi religiosa, diventerà sacerdote. La sua poesia “Voce di vedetta morta” esprime umanità attraverso la pietà e la compassione per quella sentinella che giace bocconi nel fango, colpita da un proiettile o da un tiro d’artiglieria. In mezzo allo strazio, Rebora, come Ungaretti in “Veglia”, rimane attaccato alla vita, non invoca la morte come Soffici, ma l’amore. Attraverso le parole che la vedetta non può più pronunciare, il poeta milanese pensa al futuro, alla donna che un giorno potrà amare senza motivo, dopo aver attraversato l’inferno.


Artiglieria da campagna

Museo Bonifica, San Donà di Piave



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LA FRASE DEL GIORNO
Forse è questo una donna: un tempo esangue, / nell'ombra la bontà opaca di ieri.
MARIO LUZI, Avvento notturno, "Annunciazione"




Ardengo Soffici (Rignano sull'Arno, 7 aprile 1879 – Vittoria Apuana, 19 agosto 1964), pittore, scrittore, poeta e saggista italiano. Più che un futurista vero e proprio, può essere considerato per uso della punteggiatura, analogie e poesia visiva, come scrive Pier Vincenzo Mengaldo, «un Apollinaire italiano in formato ridotto».


Clemente Luigi Antonio Rèbora (Milano, 6 gennaio 1885 – Stresa, 1º novembre 1957) poeta italiano. Dopo una giovinezza inquieta alla ricerca di una dimensione trascendente, prese parte alla Prima guerra mondiale rimanendo ferito sul Podgora. Nel 1928 una crisi religiosa lo avvicinò alla fede cattolica: nel 1936 fu ordinato sacerdote.


venerdì 23 maggio 2008

Maggio d'amore

 

KAREL MÁCHA

MAGGIO (Frammento)


Era la tarda sera - un primo maggio -
maggio serale - era tempo d'amore.
Era invito all'amore la voce della tortora,
dove odorava il bosco dei pini.
D'amore mormorava il muschio silenzioso;
l'albero in fiore mentiva una pena d'amore,
il suo amore cantava l'usignolo alla rosa,
la rosa il suo esprimeva col profumato respiro.
Il lago a specchio tra ombrosi cespugli
cupo echeggiava un segreto dolore,
la riva lo abbracciava tutt'intorno;
e chiari soli di mondi diversi
vagavano per un azzurro di nastri,
ardendo come lacrime d'amore.

(da Maggio, 1836)


Maggio è il mese del rigoglio: la vegetazione ormai è lussureggiante, i rampicanti allungano le loro spire, i fiori formano cascate, i frutti iniziano a gonfiarsi sui rami. Al poeta sembra che tutto parli d'amore, dalle tortore che tubano nella pineta al muschio che si ricopre di rugiada; dall'usignolo che canta su un albero fiorito alle rose che spandono nell'aria il loro dolce profumo. Anche il lago, così triste e profondo, così grigio, sembra partecipare lanciando tra gli arbusti della riva i suoi riflessi scintillanti.

Questi versi descrittivi sono una breve parte del poema "Maggio", del 1836, unica opera pubblicata dal poeta romantico ceco Karel Mácha, un impiegato che partecipò con passione ai moti risorgimentali praghesi e morì a ventisei anni per una malattia polmonare.
"Maggio" racconta la storia del bandito Vilém, che - secondo un canovaccio già noto nell'antichità, si pensi a "Edipo re" di Sofocle - uccide senza saperlo il padre, seduttore della donna da lui amata. È un poema ricco di contrasti: presenta la luce e la tenebra, ma anche la Natura così efficacemente descritta e il Nulla che la insidia; l'uomo si eleva fino alla vanità di Narciso e viene poi umiliato da una sorte beffarda.


Henri-Edmund Cross, "Pineta, Provenza", 1906



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LA FRASE DEL GIORNO
La coscienza non si insegna, la coscienza è istinto. La coscienza non è qualcosa che si dà a chi non la possiede. Tu non porti dall'esterno una lampada accesa in una stanza buia. Ma la lampada ardeva già nella stanza e la stanza era coperta da uno spesso velo e quando tu togli il velo, la stanza si illumina.
GIOVANNI GUARESCHI, Gente così




Karel Hynek Mácha (Praga, 16 novembre 1810 – Litoměřice, 5 novembre 1836), scrittore ceco. Maggiore rappresentante del Romanticismo ceco, visse solitario, nel mondo della fantasia accesa da letture romantiche, turbato e attratto dal pensiero della morte. Ebbe nella sua poesia momenti di singolare originalità accanto a momenti in cui non riesce a liberarsi degli schemi di un romanticismo deteriore.


giovedì 22 maggio 2008

Ricordo che fuggi...



IL RICORDO, 8

I

Questo istante
che sta già per essere ricordo, che cos'è?
Musica folle,
che reca questi colori che non furono
- poiché furono
di quelle sere d'oro, amore e gloria -;
questa musica che sta per non essere, cos'è?

II

Istante, prosegui, sii ricordo
- ricordo, tu vali di più, perché tu fuggi,
senza fine, con la tua freccia, la morte -,
sii ricordo, con me già lontano!
...Oh sì, fuggire, fuggire, non essere istante,
ma eternità nel ricordo!

III

Mia memoria immensa,
rendi secoli gli istanti che fuggirono;
eternità dell'anima dalla morte!
...Istante, fuggi, fuggi tu che sei - ahimè -
me!
Questo istante, questo tu,
che sta ormai morendo, che cos'è?

(da Pietra e cielo, 1919)


Il passato è una zona in ombra illuminata qua e là dai fari dei ricordi - come un paesaggio notturno che appaia a un viaggiatore dal finestrino di un treno. Ma quelle isole di luce, come oasi nel deserto, sono pozze di vita dove i nostri ieri risorgono dall'oblio per illuminare ancora uno scampolo di tempo. E, come alla luce artificiale, i colori appaiono diversi rispetto al chiarore del giorno, inevitabilmente anche i ricordi risultano alterati, differenti dalla realtà, perduta per sempre.

Così Juan Ramón Jiménez, dipinge il ricordo. Quello che il poeta spagnolo cerca in tutta la sua opera è un'identificazione estetica con la bellezza stessa, simboleggiata dal mare nelle opere giovanili e dalla luce di Dio in quelle della maturità. La sua poesia è un'«ansia di eternità» per superare i limiti del tempo e quelli della natura umana.



Jean Tatton Jones, "Our memory tree"


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LA FRASE DEL GIORNO
Credere è propriamente andare per quella via dove tutti gli indicatori stradali mostrano: indietro, indietro, indietro!
SÖREN KIERKEGAARD, Diario





JimenezJuan Ramón Jiménez (Palos de Moguer, 24 dicembre 1881 - San Juan, Portorico, 29 maggio 1958), poeta spagnolo premiato con il Nobel nel 1956, fu uno dei principali esponenti della Generazione del ’14 e del Modernismo. La sua ricerca poetica lo portò a privilegiare la poesia nuda ed essenziale, fatta solo di immagine e di parola al di là della musicalità esteriore.


mercoledì 21 maggio 2008

Il bambino che è in noi


GUIDO GOZZANO
SALVEZZA

Vivere cinque ore?
Vivere cinque età?...
Benedetto il sopore
che m'addormenterà...

Ho goduto il risveglio
dell'anima leggiera:
meglio dormire, meglio
prima della mia sera.

Poi che non ha ritorno
il riso mattutino.
La bellezza del giorno
è tutta nel mattino.


Nel 1910 Guido Gozzano ha ventisette anni e si sente vecchio: "A trent'anni si ricordano i venti con lo strazio della giovinezza che non si rassegna a morire. E forse in nessun'età della vita è tanto triste volgersi indietro" scrive nella novella "L'erede prescelto".

Con questa poesia, dedicata all'attrice Emma Gramatica "per l'anima sua di bimba sopravvissuta", andando al di là del tempo minuto della quotidianità e di quello esteso della vita - le cinque età, ovvero infanzia, adolescenza, gioventù, età adulta e vecchiaia - valuta la giovinezza, l'infanzia di quel "riso mattutino", quel periodo allegro e spensierato, come il bene maggiore della vita, tanto che nella poesia "L'assenza" dirà: "E non sono triste. Ma sono stupito se guardo il giardino... Stupito di che? Non mi sono sentito mai tanto bambino... "

Gozzano, che l'ha ormai vissuta e si appassiona alla teoria dell'«eterno ritorno» elaborata da Nietzsche in una prospettiva evoluzionista, sa che per riviverla dovrà abbandonarsi al sonno, al momento preciso in cui l'io per un istante regredisce all'infanzia prima di riprendere contatto con la coscienza.
Quella è la salvezza per Gozzano, non sorretto dalla fede, e lo ribadisce in un'altra poesia, "Ah! Difettivi sillogismi! L'io": "Ma ci acqueta il pensiero che al risveglio / ritroveremo intatto e vigilante / il buono fanciulletto interiore / che ci ripete d'essere sempre noi..."

L'infanzia, ancora lontana dal mondo, dalla negatività, è un'oasi dove ritornare: un bel mattino splendente e radioso, un piccolo Paradiso dal quale non siamo stati mai cacciati, come splendidamente fa notare Maurice Denuzière in "Louisiana": "Il bambino fruisce di una meravigliosa ignoranza, non sospetta la fugacità dei propri privilegi. Si nutre di scoperte, procede secondo il desiderio, riposa nel sogno. Disperato dal peso che andrà facendosi sempre più greve, dei ricordi, dei rimpianti e dei rimorsi, avanza guidato dall'immaginazione istintiva. Per lui il Bene è ciò che è gradevole, il Male è il dolore. Vive, come Adamo ed Eva, nella pienezza dell'Eden".



Robert Doisneau, "Gli scolari curiosi, Parigi, 1953"


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LA FRASE DEL GIORNO
Qualunque cosa possa dire la filosofia, molti legami ci tengono uniti alla terra. Non portiamo via sotto la suola delle nostre scarpe, le ceneri dei Padri. Ed anche il più povero serba un sacro ricordo che gli rammenta coloro che l'hanno amato. Religione o filosofia tutto indica all'uomo l'eterno culto dei ricordi.
GÉRARD DE NERVAL, Le figlie del fuoco, "Angelica"




Guido Gustavo Gozzano (Torino, 19 dicembre 1883 – 9 agosto 1916),   poeta italiano, fu il capostipite della corrente letteraria post-decadente del crepuscolarismo. Inizialmente si dedicò alla poesia nell'emulazione di D'Annunzio e del suo mito del dandy. Successivamente, la scoperta delle liriche di Giovanni Pascoli lo avvicinò alla cerchia di poeti intimisti, accomunati dall'attenzione per "le buone cose di pessimo gusto". Morì di tisi a 32 anni.


martedì 20 maggio 2008

Antiche armi biologiche


Secondo una ricerca svolta da Siro Trevisanato, un microbiologo italo-canadese di Oakville, nell'Ontario, pubblicata sul "Journal of Medical Hypothesis", la prima arma biologica della storia sarebbe stata ideata dagli ittiti nel loro periodo di espansione: tra il 1320 e il 1318 avanti Cristo attaccarono la città fenicia di Simyra, situata sulla frontiera tra Libano e Siria, portandosi via con il bottino anche i montoni affetti da tularemia; scoperta l'origine dell'epidemia, gli ittiti decisero di usarla per battere i nemici.
Questa malattia, provocata dal batterio Francisella tularensis, è nota anche come "febbre dei conigli" ed è molto contagiosa, in grado di trasmettersi dagli animali agli uomini attraverso l'ingestione di carni contaminate, il contatto con animali infetti o la semplice puntura di insetti. Senza trattamento antibiotico, risulta fatale nel 15% dei casi.
Così la "peste ittita", come è citata in documenti del tempo, venne diffusa attraverso l'invio di montoni sul territorio nemico: allevati, macellati, mangiati, diffusero rapidamente il morbo consentendo al popolo anatolico di difendere ed allargare il proprio impero.

Nelle guerre del mondo antico le armi biologiche erano all'ordine del giorno: nei commentari storici sono testimoniati lanci di favi di vespe e calabroni, di sacchi riempiti di serpenti o scorpioni, così da costringere alla fuga precipitosa i nemici. Anche nel Medioevo sono segnalati casi di "guerra batteriologica": nel 1346 i Mongoli, durante l'assedio alla città di Caffa, sul Mar Nero, catapultarono oltre le mura strenuamente difese i cadaveri dei propri soldati uccisi dalla peste bubbonica. I sopravvissuti all'attacco propagarono per tutta l'Europa la tremenda malattia, che nel giro di quattro anni sterminò un terzo della popolazione.
Nel XVI secolo i “conquistadores” spagnoli contagiarono involontariamente gli indigeni diffondendo malattie innocue per gli occidentali, ma letali per Inca, Maya e Aztechi: il banale raffreddore, per esempio. Due secoli dopo, gli inglesi invece infettarono scientemente e subdolamente i Maori della Nuova Zelanda con un’epidemia di sifilide.

Accanto alle armi biologiche, apparvero quelle chimiche: non ancora i gas asfissianti e vescicanti della I guerra mondiale, ma fiumi di zolfo incendiati dagli Ateniesi nella guerra del Peloponneso o rudimentali miscugli di pece, resina, zolfo e corno, utilizzati nella crociata contro i catari nel XIII secolo dai difensori di Beaucaire, o involucri di carta di riso pieni di polveri e piante lacrimogene, ideati dai cinesi già nel VI secolo avanti Cristo. Senza dimenticare le punte di frecce intinte nel curaro degli Indios Jivaros e di altre popolazioni primitive. Sostanze tossiche venivano adoperate anche per avvelenare l’acqua e le derrate alimentari: Solone nel 590 avanti Cristo ordinò di gettare radici di elleboro, la “rosa di Natale”, nelle riserve della città assediata di Cirra.

La guerra, come sosteneva Tito Livio, nutre se stessa. Dalla clava preistorica alla bomba "tagliamargherite" usata in Iraq.




Bassorilievo con guerrieri ittiti, Yazilikaya, Turchia






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LA FRASE DEL GIORNO
Conoscere per mezzo dell'intelligenza è un tentativo vano di far a meno del tempo.
ANDRÉ MALRAUX, La condizione umana

lunedì 19 maggio 2008

Varenna


CHARLES TOMLINSON

VARENNA

Aspettando il traghetto
osserviamo l'ultimo sole
indorare in modo esagerato
la città in riva al lago


e il lago stesso
come per ripeterci che noi
non abbiamo bisogno di cercare altrove:
l'immanenza è il mistero

dove la colonna del sole calante
si riflette in un'alta
verticale invadenza
che pare olio tremolante

e scarica sulla spiaggia
fiamme che fanno lotta e danze
in ogni vibrazione
della sfuggente sostanza,

quindi un monte si frappone,
i fili di fuoco si sfanno
e l'acqua che si oscura
traghetta la notte nella baia.

(da Poesie recenti, 1993)


Varenna, qui descritta dal poeta inglese Charles Tomlinsonarroccata su un piccolo promontorio, si adagia sulla sponda orientale del Lago di Como con la sua passeggiata, con le sue ville, con i negozi incassati sotto i portici, gli oleandri fioriti, le palme che accolgono il visitatore sin dalla stazione ferroviaria. Infatti, suggestivo è arrivare in treno, sulla linea Milano-Sondrio-Tirano, accolti dal lago che dopo Lecco accompagna i binari regalando paesaggi mozzafiato. Dalla piccola stazione, che si trova nella parte alta del paese, si scende attraverso strette stradine dalle caratteristiche case porticate fino al lago, alla piazza dell'imbarcadero, dove i riflessi giocano nell'acqua, scompigliati dalla brezza leggera: il verde delle montagne, il bianco e rosso dei battelli, i colori delle barche ormeggiate si sciolgono e si rimescolano. Dall'imbarcadero si snoda, seguendo l'arco della costa, la bellissima passeggiata lungolago: a ridosso dell'acqua, tra piante e fiori, si raggiunge la zona vecchia dove resistono ancora piccole botteghe artigiane.  Da visitare la chiesa prepositurale di San Giorgio e i giardini di Villa Monastero con viali e terrazze appoggiati alla montagna e lambiti dal Lario.
Così la descrive affascinato il poeta inglese .



Fotografia © Daniele Riva


Fotografia © Daniele Riva



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LA FRASE DEL GIORNO
ENDIMIONE Penso a volte che noi siamo come il vento che trascorre impalpabile. O come i sogni di chi dorme. Tu ami, straniero, dormire di giorno?
STRANIERO Dormo comunque, quando ho sonno e casco.
ENDIMIONE E nel sonno ti accade - tu che vai per le strade - di ascoltar lo stormire del vento, e gli uccelli, gli stagni, il ronzio, la voce dell'acqua? Non ti pare, dormendo, di non essere mai solo?
CESARE PAVESE, Dialoghi con Leucò




Alfred Charles Tomlinson (Stoke-on-Trent, 8 gennaio 1927 – 22 agosto 2015), poeta, traduttore, pittore e accademico inglese. Studiò a Cambridge e insegnò Letteratura Inglese all’Università di Bristol. Tra le sue traduzioni Antonio Machado, Vallejo, Tjutcev, Attilio Bertolucci e Octavio Paz.


domenica 18 maggio 2008

Le canzoni sono poesia?


Dunque, bellezza ed emozione caratterizzano la poesia. Ma caratterizzano anche certe canzoni ben riuscite. Queste canzoni sono poesia, allora?

Direi di no: infatti, sono un "unico" formato da musica e testo, come anima e corpo, e secondo me inscindibile. Se togliamo la musica, questa non sopravvive, non riesce a rivaleggiare non dico con l'Adagio in Sol di Albinoni ma neppure con i temi da film di Ennio Morricone. Se isoliamo il testo, questo non riesce a competere con la vera poesia: è un bel componimento molte volte, questo sì, ma schiavo della forma-canzone, con le sue rime obbligate e le sue tronche deputate a seguire il ritmo. Sono testi nati per essere cantati, non per essere letti. Credo che, analogamente, arduo è musicare una poesia: lì, la melodia si deve sottomettere al testo. Quando si recitano versi, generalmente si pone in sottofondo un anonimo tappeto musicale, uniforme e sfuocato.

Che a Franco Battiato sia andato il Premio Montale nel 1999 non può che essere un'eccezione: e infatti i testi del cantautore catanese dal 1996 sono scritti dal filosofo Manlio Sgalambro. Se prendiamo la canzone più famosa di quel periodo, "La cura", tratta da "L'imboscata" e la leggiamo come una poesia, ci sorprendiamo negativamente: non è bella come la canzone:

"Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie,
dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via,
dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo,
dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai..."


Meglio con un pezzo meno famoso inserito nello stesso album, "Serial killer":

"Mentre al riparo di un faggio
anelo alla felicità delle foglie
sfilano lontane carovane
e il mio sogno è perfetto
mi vedo riflesso sulle acque del lago
sogno pomeridiano di un fauno
che si sveglia..."

Certo, ciò non toglie che alcuni cantautori siano più "poetici" di altri, tanto che i loro testi sono stati inseriti, forse per un gusto giovanilistico, nelle antologie scolastiche. Bob Dylan, premiato con il Pulitzer quest'anno per i suoi testi, sembra essere quanto di più vicino ci sia a un poeta tra i moderni cantanti, simile ai menestrelli del Duecento e del Trecento. Apprezzabile, ma senza disgiungere i due elementi di testo e musica. Così tra gli italiani il già citato Franco Battiato, Francesco De Gregori, Fabrizio De André, Ivano Fossati e Luigi Tenco, alcune intuizioni di Mogol. E ancora la collaborazione tra Lucio Dalla e il poeta bolognese Roberto Roversi, confluita nell'album "Automobili", che contiene "Nuvolari"; segnalerei anche il periodo dialettale di Enzo Jannacci, che coniuga il grottesco e la malinconia dei balordi in una forma vernacolare che rimane di per sé già "borderline" nella poesia.

Il problema della canzone dunque sembra essere quello del facile approccio, dell'immediatezza della sua diffusione e della ricerca del più vasto pubblico possibile. Da qui deriva anche una tendenza alla facile memorabilità, alla gradevolezza di primo acchito, che spesso cade nel sentimentalismo se non nell'idiozia fine a se stessa.

Mario Luzi, in un'intervista dell'aprile 2000, spiegò bene la differenza tra il testo di una poesia e quello di una canzone: "Uno è intuitivo, l'altro di riporto. Ci sono canzoni molto belle, ma non ci sono collusioni fra loro e la poesia. Quando ho detto queste cose, ho ricevuto dai cantanti parecchi insulti mascherati, soltanto Francesco De Gregori ha capito".



Marsha Hammel, "Piano and guitar"



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LA FRASE DEL GIORNO
Quando qualcuno cerca allora accade facilmente che il suo occhio perda la capacità di vedere ogni altra cosa fuori di quella che cerca, e che egli non riesca a trovar nulla, in sé, perché pensa unicamente a ciò che cerca, perché ha uno scopo, perché è posseduto dal suo scopo. Cercare significa: avere uno scopo. Ma trovare significa: esser libero, restare aperto, non aver scopo.
HERMANN HESSE, Siddharta

sabato 17 maggio 2008

Antonio Barolini


Se le poesie di Antonia Pozzi e di Carlo Michelstaedter trasudano una nera disperazione, quelle del vicentino Antonio Barolini sprizzano invece gioia e speranza. "I miei versi sono cronaca delle mie occasioni di giullare" commentò lui stesso nelle note a "Elegie di Croton", la raccolta scritta dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti, paraganonandole in un certo senso alle "nugae", alle "sciocchezze" di Catullo.
Basta scorrere i titoli delle opere di questo poeta, nato nel 1910 e morto nel 1971, per rendersene conto: "La gaia gioventù", "Il meraviglioso giardino". C'è un'apertura positiva verso la realtà e il mondo.
Quando queste due opere furono pubblicate, una nel 1938 e l'altra nel 1942, molti critici le datarono come fuori moda, un po' provinciali, arcaiche. Allora imperava l'Ermetismo: al gusto del tempo non piaceva lo stile dimesso, quasi prosastico di Barolini, un dire schietto che assume talora un tono favolistico, spesso elegiaco, affettuoso e candido.
Negli anni Cinquanta, il poeta si trasferì a Croton-on-Hudson, presso New York, al seguito della moglie americana: lì adattò alla terra del Nuovo Mondo gli schemi che aveva applicato all'amato paesaggio veneto, mantenendo invariata la sua poetica, ma ammantandola della nostalgica dolcezza degli esuli.






NOTTE A PIAZZA CAVOUR

Desolati alfabeti di fuoco
si esprimono in silenzio
come lampare nell'acqua
tra invisibili reti.
Ritorna il grido monotono dei giornalai,
lo stridio dei tram,
scoppi di scintille
e strepere di cartelli
sul nodo aereo dei fili,
al soffio d'un vento che promette
il primo temporale d'estate.


da Il veliero sommerso, 1949




L'ERBA FALCIATA

Il profumo dell'erba falciata
rende acre il tuo sapore, vita,
e accende sul prato la giovinetta
che trema e, nell'aria d'amore,
apre le braccia
e dischiude la faccia
alla bellezza del rossore.
O colomba di un cielo immacolato.





PALLACANESTRO

L’intreccio delle braccia
ricama l’aria
divaria
in salti silenziosi.
Il pavimento
geme
e i passi
sono tonfi di sassi in acqua.
L’applauso scoppia.
Occhi,
sui denti, di fuoco.
Azzurri e bianchi
i colori del gioco.


da Elegie di Croton, 1959



Scorcio di Croton-on Hudson, NY
Foto: Crotonblog.com



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LA FRASE DEL GIORNO
Ogni cosa a ognuno accade precisamente, precisamente ora. Secoli e secoli, e solo nel presente accadono i fatti; innumerevoli uomini nell'aria, sulla terra e sul mare, e tutto ciò che realmente accade, accade a me...
JORGE LUIS BORGES, Il giardino dei sentieri che si biforcano, in "Finzioni"




Antonio Barolini (Vicenza, 29 maggio 1910 – Roma, 21 gennaio 1971),  scrittore, poeta e giornalista italiano. Noto soprattutto come narratore, ha però svolto una singolare attività poetica  nella quale si trovano i tratti fondamentali della sua personalità: dalla visione della vita, di un cattolicesimo alacre, evangelico, alla preferenza per un discorso affabile, colloquiale.


venerdì 16 maggio 2008

Il tormento di Ungaretti


GIUSEPPE UNGARETTI

DANNAZIONE


Chiuso fra cose mortali

(Anche il cielo stellato finirà)

Perché bramo Dio?

(da Allegria di naufragi, Vallecchi, 1919)


Solo dodici parole per esprimere tutto il senso del limite che la natura umana si porta dietro: la poesia è anche questa illuminazione, questa percezione che permette in soli tre versi di lanciare al cielo questo grido, questa ansia spirituale.

Giuseppe Ungaretti scrive "Dannazione" il 29 giugno 1916 a Mariano del Friuli, in zona di guerra. È un soldato semplice del 19° Reggimento di fanteria, ha ventotto anni e ha lasciato i circoli artistici di Parigi per essere catapultato nello strazio del Carso: è logico che stia vivendo un travaglio interiore anche a causa del conflitto. Guarda il bel cielo di giugno, punteggiato di stelle, e davanti all'infinito si chiede come varcare la precarietà dell'essere umano. Negli occhi ha ancora gli orrori di "Veglia" (Un'intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato), di case distrutte, di corpi disfatti dai combattimenti. Desidera la fede, l'assoluto, e lo fa con queste parole scarne, essenziali, quasi a dire solo il necessario per lasciare il resto alla meditazione, alla contemplazione. "Ma Dio cos'è?" si domanda in un'altra poesia scritta lo stesso giorno, "Risvegli".

La risposta verrà anni dopo, quando Ungaretti troverà posto alle sue inquietudini nella tradizione cristiana. "La parola dell'anno liturgico mi si era fatta vicina nella fede" scriverà dopo un soggiorno di sette giorni presso il monastero di Subiaco nel 1928: da lì gli verrà l'ispirazione per gli "Inni": "Dio, guarda la nostra debolezza" dirà nella "Pietà", e ancora: "Fulmina le mie povere emozioni / Liberami dall'inquietudine". E con "La preghiera", poesia del 1928, risponderà al quesito del 29 giugno 1916: "Sii la misura, sii il mistero // Purificante amore..."



Ungaretti soldato (fotografia di Pubblico Dominio)



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LA FRASE DEL GIORNO
"Pensare, analizzare, inventare non sono atti anormali, sono la normale respirazione dell'intelligenza.
JORGE LUIS BORGES, Finzioni




Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1º giugno 1970) è uno dei tre grandi poeti dell’Ermetismo italiano. Trasferitosi a Parigi nel 1912, prese parte alla Prima guerra mondiale nelle trincee del Carso e poi in Champagne. Dal 1935 al 1942 insegnò in Brasile e dal 1947 al 1965 fu professore di letteratura moderna alla Sapienza.