lunedì 2 marzo 2009

Il destino del dialetto


Il dialetto è lingua o un retaggio del passato che è bene far scomparire? E, con il passare del tempo, non sarà poi l'italiano il dialetto e l'inglese la lingua? Sono temi attuali, questi, che il 23 febbraio hanno trovato spazio anche su Avvenire, quotidiano dal quale ho tratto questa intervista di Ilario Lombardo a Davide Van De Sfroos, cantore del dialetto "laghée".






Davide Van de Sfroos 
«È l’anima nobile di un popolo, guai a vergognarsene» 
Ci fosse una Nashville italiana lui salirebbe sul palco acclamato come Johnny Cash. Non canta però le vallate del Tennessee come i folk singer o i menestrelli country: la sua musica si porta dietro invece gli umori della sua gente e le storie che i venti tramandano sulle coste del lago di Como. Davide Van de Sfroos, nato Davide Bernasconi, porta già nel nome d’arte il dialetto come lingua d’elezione delle sue ballate. «Vanno di contrabbando» o «vanno di frodo», questo significa: un riferimento esplicito a quei mitici avventurieri che lungo il confine tra la Svizzera e il comasco, facevano del contrabbando un’arte e un mestiere. Cantautore osannato come un mito locale dai lariani, Van de Sfroos fa il balzo verso una platea nazionale con il suo ultimo album Pica!. E l’Italia fa la conoscenza del laghée.

È una variante del comasco, ma quale è la sua particolarità?
«È fantastico dal punto di vista metrico e ritmico. È diretto, più duro, con le "u" simili al sardo o al rumeno, è molto roots, radicale. Ti permette di sperimentare vie musicali ardite. Ha sfumature rock ’n roll, oniriche, etniche. È fatto di magia e di mistero. Ha ascendenze francesi, spagnole, celtiche. Ha tante influenze dentro, eppure è qualcosa di unico. Le sue vocali molto trascinate e le forti troncature possono ricordare alcune varianti del francese. A New Orleans pensavano fosse il cajun dei francesi canadesi immigrati in Louisiana, oppure, visto il cognome, il fiammingo».

Come lei, molti altri musicisti che cantano in dialetto sono in prima fila nella difesa della propria lingua territoriale. Il miglior modo per preservarla?
«Il dialetto è una lingua che è esistita prima di noi. Ha un retaggio di influenze e di testimonianze immenso. Sarebbe un errore collocare il dialetto dentro una bacheca perché non sarebbe più una cosa viva. È chiaro che se tieni alla conservazione del territorio, al patrimonio culturale e naturale, non puoi non fare la stessa cosa con il dialetto che è l’anima nobile di un popolo. L’errore che si fa è quello di accomunarlo al popolaresco o al vezzo goliardico, invece c’è tutto un mondo che in dialetto si esprime: c’è gente che è nata, vissuta e morta parlando il dialetto, che ha tramandato storie del luogo in questa lingua perché ha tutta una gamma di espressioni e di sfumature adatte. È popolare e con l’espressività immediata delle persone che si trovano in uno stato confidenziale. Parlarlo per tenerlo vivo: è l’unico modo per salvare il dialetto».

Chi sono i nemici del dialetto?
«Prima il dialetto veniva associato alla vergogna. Oggi invece nelle scuole mi invitano a parlare dell’importanza culturale del dialetto. E spesso a invitarmi sono le stesse maestre che prima si raccomandavano con i genitori di non parlare in dialetto per evitare gli strafalcioni in italiano dei figli. Forse si sono rese conto di cosa potevano perdere. Il problema oggi è che sta diventando una cosa di nicchia destinata a scomparire, e custodirlo è difficile perché con l’avvento dei nuovi media si parla tanto l’inglese»

Pensa che solo il dialetto possa raccontare le storie delle sue canzoni?
«Appena entri in un paese la prima cosa che noti è l’accento e la cadenza. Ecco, il dialetto è la credibilità necessaria per raccontare in maniera iperrealista la storia avvenuta in quel luogo. E nelle mie storie i personaggi sono eroi semplici, persone al limite della legalità e della società, borderlines, sciagurati dalla vita politicamente scorretta ma con una visione della vita affascinante e che a modo loro hanno lasciato dei segni. Il dialetto è l’integrità di questa tradizione».

Nel mondo della discografia, però, la canzone dialettale sembra considerata, con diffidenza, musica in italiano minore. Forse perché c’è un limite regionale nel comprenderla?
«Non credo. L’errore delle radio e dei produttori di dischi è quello di fare l’equazione dialetto=canto delle mondine e folklore di paese. Invece basta pensare a cosa ha fatto De André con il gallurese e il genovese. Il dialetto è identità ma non è un muro di divisione. In tutte le regioni dove siamo stati in concerto, abbiamo avuto successo e affetto. Guardavano a noi con la curiosità che si riserva a musicisti che vengono da un determinato territorio e si esprimono nella lingua di quel territorio. È un destino comune a tutti i cantanti dialettali. Poi se guardi a nomi come i 99 Posse, iTazenda, i vari gruppi salentini, noti come le contaminazioni rock, blues, reggae li fanno amare anche fuori dalla propria regione. Anche all’estero, dove ognuno porta un pezzo d’Italia. Fa ridere, ma una volta mi trovavo in una radio di Berlino e mi hanno paragonato a Youssou N’Dour: io che in Italia sono considerato un cantante del profondo nord».



In questi tempi di triste omologazione, dove si globalizza tutto, dall'abbigliamento dei ragazzi alle catene di "ristoranti" con cibo predeterminato uguale in tutto il mondo, persistono eroici resistenti: che siano i paladini del "mangiare lento" (ma perché battezzarsi "slow food"?) o i difensori della lingua ancestrale che ognuno di noi si porta dentro. Contaminati già dall'italiano, i dialetti scompariranno, diverranno lingue morte senza l'autorevolezza del greco e del latino. E nessuno canterà più in napoletano o in milanese o nel laghée di Van De Sfroos: il mondo perderà quel tocco non "folkloristico" ma puramente emozionale, il legame con un passato che ha memoria di campi lavorati e di antichi borghi operai. Anch'io - e un po' mi vergogno a dirlo - non penso in dialetto, ma in italiano, ed è sempre stato così, dai tempi dell'asilo: siamo stati programmati a parlare una lingua che non è quella dei nostri avi in nome di un interesse superiore. Ma questo non vuol dire dover abbandonare alla deriva culturale i dialetti: sarebbe come cedere la gestione della cucina italiana a Mac Donald's. Esagerazione? Sentite cosa scrisse lo storico Giuseppe Galasso sul Corriere della Sera del 27 novembre 2007: "L'ultimo grido della moda universitaria sembra sia la rinuncia alle lingue nazionali. Tutto in inglese. Così, si dice, si attirano gli studenti stranieri e gli studenti locali fanno un percorso, da subito; internazionale. Sarà, ma qualcosa mi preoccupa. Adeguarsi a una lingua imperiale è un atto saggio e funzionale a molti scopi pratici. Ma così la tutela delle culture europee perde di senso, e il plurilinguismo non è una risposta. Le lingue sono l'essenza di tradizioni e culture: via le lingue, addio".  





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LA FRASE DEL GIORNO
Un populu | mittitulu a catina | spugghiatulu | attuppatici a vucca | è ancora libiru. || Livatici u travagghiu | u passaportu | a tavola unni mancia | u lettu unni dormi | è ancora riccu. || Un populu, diventa poviru e servu | quannu ci arrubbano a lingua | addutata di patri: è persu pi sempri. (Un popolo rimane libero anche se lo mettono in catene, se lo spogliano di tutto, se gli chiudono la bocca; un popolo rimane ricco anche se gli tolgono il lavoro, il passaporto, la tavola su cui mangia, il letto in cui dorme. Un popolo diventa povero e servo quando gli rubano la lingua ereditata dai padri: allora sì, è perso per sempre!)
IGNAZIO BUTTITTA, Lingua e dialettu

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