lunedì 30 novembre 2009

Una notte di luna, 400 anni fa

Il 30 novembre 1609 segnò una data-chiave per il mondo scientifico. Non accadde nulla di particolare, né nulla di interessante venne scoperto. Fu solo la sera in cui un uomo si mise davanti al cielo stellato, prese un modernissimo strumento da lui inventato, un tubo alle cui estremità erano fissate due lenti, e si mise così a osservare l’immagine ingrandita della Luna.

Quello strumento, naturalmente, era il cannocchiale, quell’uomo era un professore di matematica a Padova, Galileo Galilei. Nei mesi seguenti fece grandi scoperte astronomiche: la presenza di mari e monti sulla Luna, la natura stellare della Via Lattea, i quattro satelliti di Giove. Il 13 marzo del 1610 le annunciava al mondo pubblicando il “Sidereus Nuncius”. Quello stesso anno, trasferitosi su invito del granduca Cosimo de’ Medici allo Studio di Pisa, la sua città, scoprì ancora le anomalie di Saturno, le macchie solari e le fasi di Venere. Galileo si convinse che la teoria copernicana era corretta e che la Terra gira intorno al sole, stella fissa, e non viceversa. Lì cominciarono i suoi guai con gli ambienti universitari e teologici che lo avrebbero portato alla denuncia come eretico nel 1615 e all’abiura del 1632.

Ma quella fredda notte di luna del 30 novembre di quattrocento anni fa Galileo era là a osservare con entusiasmo e ad annotare sul quaderno le sue considerazioni, ben conscio, come scrisse nel “Saggiatore”, che “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere, se prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”.

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LA FRASE DEL GIORNO
La Scrittura non può errare; potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno dei suo’ interpreti ed espositori, in vari modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel puro significato delle parole.
GALILEO GALILEI, Lettere, a Benedetto Castelli, 21 dicembre 1613

domenica 29 novembre 2009

Come sempre il vivere


GIUSEPPE UNGARETTI

ULTIMI CORI PER LA TERRA PROMESSA, 1


Agglutinati all'oggi
I giorni del passato
E gli altri che verranno,


Per anni e lungo secoli
Ogni attimo sorpresa
Nel sapere che ancora siamo in vita,
Che scorre sempre come sempre il vivere,
Dono e pena inattesi
Nel turbinio continuo
Dei vani mutamenti.


Tale per nostra sorte
Il viaggio che proseguo,
In un battibaleno
Esumando, inventando
Da capo a fondo il tempo,
Profugo come gli altri
Che furono, che sono, che saranno.


(da Il taccuino del vecchio, 1960)

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È ancora il tempo, tema centrale nella poesia di Ungaretti, a scorrere in questa poesia, il primo dei 27 “Ultimi cori per la Terra Promessa”, nato, come specifica lo stesso autore, “da un breve ritorno fatto l’anno scorso [1951] in Egitto insieme a Leonardo Sinisgalli” e suggerito “in particolare dal paesaggio di deserto della Necropoli di Sakkarah”.
C’è però una diversa visione rispetto ai giorni dell’«Allegria»: lo stupore giovanile e un po’ elementare ora si è mutato in sguardo esperto, vissuto – Ungaretti ha 64 anni quando scrive questo primo coro, e intravede la Terra Promessa, la fine che porrà termine alla sua condizione di profugo del tempo, di esule dell’esistenza.
E dunque, ripensando a questo paesaggio desertico, Ungaretti medita sul viaggio terrestre, sulle memorie e sulle speranze, sui ricordi e sui progetti che sono ancorati sempre all’attimo presente, in questa vita che ci sorprende nonostante tutte le sue novità tanto che non sappiamo dire se essa sia un dono o non piuttosto una pena. Ma comunque, profughi, esuli in questo tempo ci barcameniamo nel breve spazio dei giorni tra ciò che abbiamo compiuto e ciò che potremo fare…


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Saqqarah © Gerhard Huber

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LA FRASE DEL GIORNO
Quando un giorno ti lascia / pensi all’altro che spunta.
GIUSEPPE UNGARETTI, Il taccuino del vecchio



Giuseppe Ungaretti (Alessandria d'Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1º giugno 1970) è uno dei tre grandi poeti dell’Ermetismo italiano. Trasferitosi a Parigi nel 1912, prese parte alla Prima guerra mondiale nelle trincee del Carso e poi in Champagne. Dal 1935 al 1942 insegnò in Brasile e dal 1947 al 1965 fu professore di letteratura moderna alla Sapienza.



sabato 28 novembre 2009

Salone del Libro Usato a Milano

A Milano, dal 5 all’8 dicembre, oltre alla tradizionale Fiera degli Oh Bej! Oh Bej!, che anche quest’anno si svolge tra Piazza Castello e il Parco Sempione, c’è una bella e curiosa rassegna negli storici locali della Fiera di Milano, ora Fieramilanocity, con ingresso da Via Scarampo, Porta Teodorico, Padiglione 1.

È il 5` Salone del Libro Usato - Bancarelle in Fiera: un paradiso per gli appassionati di edizioni fuori commercio e rarità ma anche per semplici curiosi e amanti dell’antico e del modernariato: infatti l’ingresso è gratuito. Più di trecento bancarelle, patrocinate dalla Fondazione della Biblioteca di Via Senato e dall’assessorato alla Cultura del Comune: gli espositori arrivano anche dall’Olanda, dalla Francia, dalla Germania e dal Regno Unito. Sarà possibile aggirarsi tra primi numeri delle collane a fumetti, prime edizioni di grandi classici, serie complete di paperback e gialli, raccolte di poesie, libri di fotografia e d’arte, stampe antiche, locandine cinematografiche, libri per ragazzi.

Curiosa l’iniziativa di bookcrossing a lato del Salone: dal 30 novembre al 2 dicembre 5.000 volumi saranno “liberati” in tutta la città con l’invito a scambiare i libri letti: sarà possibile cercarli in Piazza Cavour, Corso Garibaldi, Piazza Piemonte, Corso Vercelli, Piazza della Scala, Corso Genova, Piazza Cinque Giornate, Piazza San Babila, Corso Buenos Aires, Piazza Cordusio e nelle stazioni di Lambrate, Centrale, Cadorna, Garibaldi e Bovisa.

Molte le curiosità del Salone segnalate dagli organizzatori: una vasta raccolta di materiali dedicati alla Rivoluzione Cubana, le “Grandi Voci” della lirica, la locandina-invito della prima mostra di Jannis Kounellis nel 1960, le locandine di 500 film che hanno fatto la storia del cinema, la prima edizione in francese dei “Promessi Sposi” e quella in italiano di “Viaggio al termine della notte" di Céline, la riproduzione commentata dello Stemmario Trivulziano, una Cenerentola olandese del 1942 in tre dimensioni… Non resta che correre in Fiera. Ci sarà tempo anche per una capatina agli “Oh Bej! Oh Bej!”

5° SALONE DEL LIBRO USATO – BANCARELLE IN FIERA

Fieramilanocity, Padiglione 1, Viale Scarampo – Milano Metropolitana: Lotto-Fiera (linea 1 rossa)

Inaugurazione: Sabato 5 dicembre ore 12.00
da Sabato 5 a Martedì 8 dicembre 2009

Orari: sabato dalle ore 12.00 alle ore 19.00
domenica, lunedì e martedì dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Ingresso libero

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LA FRASE DEL GIORNO
Il pregio di un libro consiste o nella sua utilità o nello svago che procura, o in ambedue le cose quando è possibile.
PIERRE CHODERLOS DE LACLOS, Le relazioni pericolose

venerdì 27 novembre 2009

Cos’è la poesia? (XIII)


ALDA MERINI

LA MIA POESIA È ALACRE COME IL FUOCO


La mia poesia è alacre come il fuoco,
trascorre tra le mie dita come un rosario.
Non prego perché sono un poeta della sventura
che tace, a volte, le doglie di un parto dentro le ore,
sono il poeta che grida e gioca con le sue grida,
sono il poeta che canta e non trova parole,
sono la paglia arida sopra cui batte il suono,
sono la ninnanànna che fa piangere i figli,
sono la vanagloria che si lascia cadere,
il manto di metallo di una lunga preghiera
del passato cordoglio che non vede la luce.


(da La volpe e il sipario, 1997)

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Ecco un’altra delle tante facce della poesia: Alda Merini, la poetessa milanese recentemente scomparsa, canta l’impossibilità di raccogliere tutta quanta la poesia che c’è nel mondo: questa poesia che diventa preghiera e sofferenza e che pure sfugge come sabbia tra le dita. È anche l’incapacità di esprimerla completamente, anche se in realtà la Merini ne ha rivelata molta, e bellissima è l’immagine dell’umile paglia che può rifrangere solo una debole eco del suono, ben lontana dalle grancasse di certi intellettuali. Ma proprio qui sta la grandezza della poesia: nell’emozione del suo dire, nella semplicità del suo apparire, nell’abbassarsi per elevarsi.

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LA FRASE DEL GIORNO
Non cercate di prendere i poeti perché vi scapperanno tra le dita.
ALDA MERINI, Aforismi e magie




Alda Giuseppina Angela Merini (Milano, 21 marzo 1931 - 1º novembre 2009),  poetessa, aforista e scrittrice italiana. Vide pubblicate le prime poesie a diciannove anni. L’amore agitato con Giorgio Manganelli riportò alla luce i disagi psichici: dal 1965 al 1972 fu internata in ospedale psichiatrico. Dimessa, visse nella sua casa sui Navigli, spesso in stato di emarginazione, circondandosi di artisti.


giovedì 26 novembre 2009

Il poeta in bicicletta

GIORGIO ORELLI

SULLA SALITA DI RAVECCHIA

Chi è questo che viene, che solo di vista conosco,
con uno spolverino di tinta neutra,
e adesso che spingo a mano la bici mi segue da presso
e prima di giungere in cima all'allegra salita
«scusi» mi fa toccandosi svelto il cappello
di falda severa, «la borsa cade?»

«Grazie, lasciamola
andare dove vuole» dico «tanto, cadendo si avvita
al portapacchi, vede?, dove di certo starebbe
fino l Giudizio Universale. Grazie,
comunque».

E lui: «Lei non conosce me, io svizzero
tedesco, di Zurigo, ma già tanti anni in Ticino,
io testimone di Geova, sa lei
che la fine del mondo è vicina e tutti i capri
saranno separati dai pecori, lei sa?»
«Lo so» rispondo (neri gallini ci guardano
di profilo da un orto, l'acqua che va nel tombino
ciangotta che pare un uccello)
«lo so perché anch'io sono oriundo
dell'aldilà».

(dal “Corriere del Ticino”, 10 ottobre 1996)

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Giorgio Orelli, poeta ticinese, è stato definito “poeta dell’occasione” per il suo gusto della quotidianità, per l’elevazione a poesia dell’evento che brilla come un puntino di mica nella pietra della trita realtà di ogni giorno. Questa poesia, pubblicata sul “Corriere del Ticino” in occasione dei Mondiali di ciclismo di Lugano del 1996, ne è un esempio calzante: un incontro, mentre il poeta, sceso dalla bicicletta su un’erta salita, la spinge a mano; un testimone di Geova che lo raggiunge e gli parla della fine del mondo. Orelli, che dopo aver praticato a lungo una poesia di stile montaliano, in età più matura si è abbandonato a un linguaggio più giornaliero e dialogato a discapito del verso esatto, gioca sul filo dell’ironia – memorabile quei “neri gallini” che seguono i “capri” e i “pecori” e chiude il breve fraseggio con un epigramma fulminante: allo svizzero tedesco trapiantato in Ticino dice di essere anch’egli un oriundo, non di un luogo, ma della vita. Non è difficile immaginarlo, ormai giunti i due alla fine della salita, inforcare nuovamente la bicicletta e partire lasciando nell’aria quella sua sentenza.

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Alexander Millar, “The dismount”

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LA FRASE DEL GIORNO

Gli uomini possono salvarsi solo fra loro. Per questo Dio si traveste da uomo.
ELIAS CANETTI, La provincia dell’uomo




Giorgio Orelli (Airolo, 25 maggio 1921), scrittore, poeta e traduttore svizzero di lingua italiana. La sua poesia, in parte appartenente al filone post-ermetico, a tratti avvicinata a quella Linea Lombarda, è ricca di grazia musicale e si caratterizza per una sua ironica ambiguità.


mercoledì 25 novembre 2009

Povero autunno


GUILLAUME APOLLINAIRE

AUTUNNO MALATO

Autunno malato e adorato
Morirai quando l'uragano soffierà sui roseti
Quando avrà nevicato
Sui frutteti

Povero autunno
Muori in biancore e ricchezza
Di neve e di frutti maturi
In fondo al cielo
Planano sparvieri
Sulle nixi graziose dai capelli verdi e nane
Che non hanno mai amato

Sui confini lontani
I cervi hanno bramito

E quanto amo stagione quanto amo i tuoi suoni
I frutti che cadono e che nessuno raccoglie
Il vento e la foresta che piangono
Tutte le loro lacrime d'autunno foglia a foglia
Le foglie
Pestate
Un treno
Che passa
La vita
Che va.

(da Alcool, 1913)

L’autunno ha già dato tutti i suoi colori e i suoi frutti, ormai lascia spazio al gelido riposo dell’inverno. Guillaume Apollinaire ne coglie questo stato dando un tono crepuscolare alla sua versatile poesia che attinge a Cubismo, Futurismo, Surrealismo, Dadaismo… La fine dell’autunno è una malattia, un lungo deliquio coperto dal lenzuolo bianco della brina che prepara i candidi giorni di neve. Sui rami restano i frutti non raccolti, in particolare i cachi che punteggiano d’arancio gli ossuti rami neri, nei campi deserti il poeta immagina in difficolta le Nixi, divinità romane legate al momento del parto: è il momento in cui nulla fa pensare alla nascita ma che tuttavia proprio per questa decadenza piace ad Apollinaire, così come si ama lo splendore veneziano sempre in bilico verso lo sprofondo. È la vita che passa, ci dice: l’autunno che finisce ne è la sua testimonianza.

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© PTorrodellas / Flickr

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LA FRASE DEL GIORNO
Oltre l'Autunno i poeti cantano / Alcuni prosaici giorni / Un poco al di qua della neve / E al di là della Foschia.
EMILY DICKINSON, Poesie




Wilhelm Albert Włodzimierz Apollinaris de Wąż-Kostrowick (Roma, 26 agosto 1880 - Parigi, 9 novembre 1918), noto con lo pseudonimo di Guillaume Apollinaire, poeta francese sostenitore di una totale libertà formale e di nuovi contenuti frutto dell’indagine dell’inconscio, fu un precursore del Surrealismo. Combattente nella Prima guerra mondiale, fu vittima dell’epidemia di febbre spagnola.


martedì 24 novembre 2009

Viaggio intorno alla mia camera

Un viaggio dove non si va da nessuna parte, o meglio dove rimanendo fermi si vola dappertutto, si evade dalla prigione della propria vita ispezionando il proprio io come se fosse un mondo… È “Viaggio intorno alla mia camera”, un esile volumetto di un centinaio di pagine scritto tra il 1790 e il 1794 da Xavier de Maistre, fratello minore del più celebre Joseph, filosofo e diplomatico savoiardo, che darà alle stampe il testo nel 1795.

E dunque Xavier de Maistre, ventiseienne aiutante maggiore di battaglione, del reggimento di fanteria La Marina, poco prima del carnevale del 1790 ha una vertenza d’onore a Torino con l’ufficiale Patono de Meyran con il quale va a duello, vincendolo. Il duello gli costa però una punizione: viene confinato agli arresti domiciliari nella sua stanza alla cittadella militare del capoluogo piemontese. Xavier, che qualche anno prima, pochi mesi dopo il lancio del primo aerostato da parte dei fratelli Montgolfier, aveva sperimentato l’ebbrezza del volo compiendo un’ascensione di duemila metri in mongolfiera, trova la libertà nella dicotomia tra anima e corpo: lascia il proprio corpo nella stanza e dà libero sfogo all’immaginazione con quella che Saint-Beuve definì una “grazia sorridente” e che altro non è se non l’afflato della poesia, la consapevolezza che la sensibilità può spalancare le porte di un mondo incantato nel quale trovare la felicità a dispetto delle contingenze materiali.

De Maistre ripercorre, anticipando Robbe-Grillet, tutti gli oggetti della stanza – la poltrona, il letto, stampe e quadri, lo specchio, la scrivania, la sedia – usandoli come trampolino per l’evasione fittizia verso quel paese fantastico che diverrà la terra della libertà, tanto che, allo scoccare dei 42 giorni, così dirà: “Incantevole paese dell’immaginazione, che l’Essere benefico per eccellenza ha concesso agli uomini per consolarli della realtà, ti debbo lasciare. – Oggi stesso, certe persone da cui dipendo hanno la pretesa di ridarmi la libertà: – come se me l’avessero tolta! come se avessero potere di rubarmela un solo istante, e d’impedirmi di percorrere a mio piacimento il vasto spazio sempre aperto, dinanzi a me! – Mi hanno vietato una città, un punto; ma mi hanno lasciato l’universo intero; l’immensità e l’eternità sono ai miei ordini”.

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WILLIAM THEOPHILUS BROWN, "UOMO SEDUTO IN UNA SEDIA A UOVO"

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LA FRASE DEL GIORNO
Nessun ostacolo potrà fermarci; e, abbandonandoci gaiamente alla nostra immaginazione, la seguiremo ovunque le piacerà di condurci. XAVIER DE MAISTRE, Viaggio intorno alla mia camera

lunedì 23 novembre 2009

Ferlinghetti e Hopper

LAWRENCE FERLINGHETTI

A CASA HOPPER

A casa Hopper
sulla spiaggia di Truro
Mi giro e alzo gli occhi a guardarla
alta sulla scogliera
E sono Edward Hopper
il famoso pittore americano
disteso sul pendio
fra le erbe della sabbia
e mi giro e alzo gli occhi verso
il Mondo di Hopper
dove abitò tutti quegli
anni spazzati dal vento
certo non solo e malinconico
come i personaggi dei suoi quadri
nelle bettole aperte tutta notte
dietro ai vetri d’un mattino domenicale
in camere da letto con le lampadine appese a un filo
fari assolati
verande di serate estive
case lungo la ferrovia
facciate vittoriane
di vuoto
Eppure saprei dipingerli diversi adesso io?
alla fine estrema del nostro secolo distorto
come se la sovrappopolazione adesso
avesse davvero sconfitto
le nostre immense solitudini
per cui simbolo di successo è ancora
una casa isolata
su un colle.

(da Poesie vecchie & nuove, 1998)

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Edward Hopper, di cui è in corso, fino al prossimo 31 gennaio, la mostra milanese a Palazzo Reale, fu il pittore dell’inquietudine e della solitudine, dell’alienazione imposta dalla moderna società. A South Truro, a Cape Cod, c’è la casa dove il pittore e la moglie Josephine Nivison si recludevano nelle calde estati newyorkesi. Lì, in visita, Lawrence Ferlinghetti, esponente di spicco della beat generation, prova a rivivere l’esistenza di Hopper, a cercare di comprendere che cosa lo spingesse a dipingere quella solitudine, come se vi fosse qualcosa nel paesaggio che potesse suggerirlo.

Nulla di tutto ciò, perché i paesaggi che Hopper dipingeva erano quelli delle nostre anime: Ferlinghetti, sul finire del XX secolo, si trova a concludere che nulla è cambiato, che oggi Hopper si troverebbe ancora a illustrare quella disperata solitudine che permea ancora le nostre vite.

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Edward Hopper, “Second story sunlight”

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LA FRASE DEL GIORNO
Quando si è soli nel corpo e nello spirito si ha bisogno di solitudine, e la solitudine causa altra solitudine.
FRANCIS SCOTT FITZGERALD, Tenera è la notte




Lawrence Ferlinghetti (Yonkers, New York, 24 marzo 1919), poeta ed editore statunitense. Nel 1955 fondò la City lights rocket bookshop a San Francisco che divenne il centro culturale del movimento beat. Parte della sua poesia è di protesta politica e si pone in opposizione alla violenza. La sua opera, pur lirica, è caratterizzata da un vivo senso dello humour e della satira.


domenica 22 novembre 2009

Nizar Qabbani

Nizar Qabbani è un poeta siriano dallo stile raffinato, considerato uno dei maggiori della letteratura araba del XX secolo, un cantore che esplorava con eleganza e semplicità i territori dell’amore, dell’erotismo e della religione. Fu una tragedia a spingere Qabbani alla poesia: quando il futuro poeta e diplomatico aveva 15 anni, sua sorella Wisal, di dieci anni maggiore, si uccise per evitare un matrimonio che non voleva con un uomo che non amava. Ai suoi funerali Qabbani decise di combattere quell’ingiustizia sociale che era stata causa della morte della sorella. “L’amore nel mondo arabo è come un prigioniero e io voglio liberarlo. Voglio liberare l’anima araba, i suoi sensi e il suo corpo con la mia poesia” disse un girono a un intervistatore che gli chiedeva se fosse un rivoluzionario. Lo era Qabbani: un rivoluzionario dell’amore, dell’eros, dell’uguaglianza tra uomo e donna in un mondo come quello arabo dove tutto questo era ed è difficile da accettare.



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FRAMMENTI DA "IL LIBRO DELL'AMORE"

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O Signore, il mio cuore non mi basta più,
quella che io amo è grande quanto il mondo:
mettimene nel petto un altro
che sia grande quanto il mondo.
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Continui a chiedermi la data della mia nascita
prendi nota dunque
ciò che tu non sai,
la data del tuo amore:
quella è per me la data della mia nascita.

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Io non ho detto loro di te
ma essi videro che ti lavavi nelle mie pupille
io non ho parlato loro di te
ma essi ti hanno letto nel mio inchiostro e nei miei fogli
L'amore ha un profumo
non possono non profumare i campi di pesco.
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(da Dipingere con le parole, 1966)

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CAMMINANDO SULLE ACQUE

La cosa più bella del nostro amore
non ha senso o ragione.
La cosa più bella del nostro amore
è che cammina sulle acque
senza affondare.

(da Poesie pazze, 1983)


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LA FRASE DEL GIORNO
La luce è più importante della lanterna, / la poesia più importante del taccuino, / e il bacio più importante delle labbra.
NAZIR QABBANI




Nizar Tawfiq Qabbani (Damasco, 21 marzo 1923 – Londra, 30 aprile 1998), poeta, editore e diplomatico siriano. Il suo stile poetico combina semplicità ed eleganza nell'esplorare i temi dell'amore, dell'erotismo, della religione e dell'emancipazione araba contro l'imperialismo straniero e i dittatori locali.


sabato 21 novembre 2009

Gente che corre

Se camminiamo di notte per strada e un uomo ci corre incontro, visibile da lontano, perché la strada è in salita e c’è la luna piena, non faremo nulla per trattenerlo, anche se è debole e lacero, anche se qualcuno lo insegue gridando, ma lo faremo continuare nella sua corsa. È notte e non è colpa nostra se la strada sale sotto la luna piena, inoltre può darsi che i due abbiano inscenato l’inseguimento per gioco, forse entrambi inseguono un terzo, forse il primo viene inseguito senza colpa, forse il secondo ha intenzioni omicide e noi diventeremo complici dell’assassinio, forse i due non sanno nulla uno dell’altro e ciascuno corre, per suo conto, a letto, forse sono sonnambuli, forse il primo è armato. E, a ultimo, non ci è lecito essere stanchi, non abbiamo bevuto tanto vino? Che sollievo non vedere più neppure il secondo.

(da Contemplazione, 1913)

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Franz Kafka è l’autore di questo brevissimo racconto, perfettamente concluso però nella sua esiguità. Breve certo ma molto intenso: non ci dà un senso univoco, ma ci offre significati molteplici. Così ecco espressa la precarietà della nostra vita, che può essere improvvisamente sconvolta da un evento esterno: il protagonista potrebbe bloccare il primo uomo e divenire complice di un omicidio, potrebbe bloccare il secondo e finire ferito o assassinato, potrebbe insomma scegliere di intervenire – e qui si impone la necessità di una scelta, cosa non facile nella vita di tutti i giorni: quanti alibi ci creiamo per non decidere? Ma c’è anche la solitudine che ci accerchia e che non sappiamo rompere, tanto che, evitando gli altri, ci abbandoniamo alla viltà dell’isolamento. Tanti pensieri, tanti quesiti espressi in così poche righe…

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Fotografia © Pxhere

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LA FRASE DEL GIORNO
È quando cerchiamo di misurarci con le intime necessità di un altro uomo che ci rendiamo conto di quanto siano incomprensibili, tentennanti e sfuggenti coloro che condividono con noi la vista delle stelle e il calore del sole.
JOSEPH CONRAD, Lord Jim




Franz Kafka (Praga, 3 luglio 1883 – Kierling, 3 giugno 1924), scrittore boemo di lingua tedesca. Le sue opere  - quasi sconvolgenti allucinazioni - descrivono esperienze di un'inquietante assurdità facendo uso di una scrittura lucida, straordinariamente precisa e realistica nei dettagli e nel tratteggiare fatti inauditi come momenti della più normale quotidianità.


venerdì 20 novembre 2009

Cos’è l’arte? (III)

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PAUL KLEE

“L'arte non riproduce il visibile; piuttosto, crea il visibile”.

Paul Klee, "Miraculous Landing"
acquerello, 1920 / New York, MOMA

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PAUL GAUGUIN

“L'arte è un'astrazione: spremetela dalla natura
sognando di fronte ad essa e preoccupatevi più
della creazione che del risultato”.

Paul Gauguin, “Où vas tu? II”
olio su tela, 1893 / San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.

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PABLO PICASSO

“L'arte è una bugia che ci fa realizzare la verità”.


Pablo Picasso, “Jeune femme devant un miroir”
olio su tela, 1932 / New York, Museum of Modern Art

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LA FRASE DEL GIORNO
L'arte è la creazione di una magia suggestiva che accoglie insieme l'oggetto e il soggetto.
CHARLES BAUDELAIRE, I luoghi dell’arte

giovedì 19 novembre 2009

Lo strambotto e il rispetto


BENEDETTO CARITEO

ACCENDE IL MIO CANTAR FIAMMA D’AMORE…

Accende il mio cantar fiamma d'amore
nel crudo mare e ne le gelide onde;
cantando io nelle selve, esce di fuore
la fera, che cacciata si nasconde;
odono lagrimando il mio dolore
omini et animali, arbore e fronde;
ma riscaldar non posso il freddo core
di questa, che m’ascolta e non risponde.


Questa pena d’amore narrata da Benedetto Gareth Cariteo, poeta catalano di fine Quattrocento, vissuto a Napoli alla corte aragonese, ci consente di parlare di una composizione lirica particolare, lo strambotto: un’ottava di endecasillabi a rima alternata, che spesso veniva accompagnata da un liuto o da una viola. Il suo gusto popolare serviva a indicare un sentimento di amore caldo e irruente. Non è quindi un caso che lo strambotto, nato nel sud della Francia, si sia rapidamente diffuso nelle nostre regioni meridionali. Il Cariteo esprime il suo amore deluso con tinte cariche e accorate: alle sue parole di venerazione si riscaldano i mari gelidi, si sciolgono persino le belve della foresta, uomini e animali e persino le piante si commuovono; solo l’amata rimane impassibile e non ricambia il fuoco sacro del poeta…

Sempre nel Quattrocento lo strambotto si raffinò e passò in Romagna e in Toscana, dove assunse il nome di rispetto, mutando leggermente la sua forma – una quartina a rima alternata e una a rima baciata - e venne praticato dal Poliziano e da Lorenzo il Magnifico. Eccone un esempio anonimo che richiama alla mente la famosa ode sublime di Saffo:


ANONIMO

O DIO DEL CIELO, CHE PENA È LA MIA

O Dio del cielo, che pena è la mia
aver la lingua e non poter parlare!
Passo davanti a la ragazza mia
la veggo e non la posso salutare!
E la saluto con la mente e il core
giacché la lingua mia parlar non puole:
la saluto col core e con la mente
giacché la lingua mia non puol dir niente!



Jan Van Eyck, “I coniugi Arnolfini”

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LA FRASE DEL GIORNO
L’amore produce molto miele e fiele.
PLAUTO, Cistellaria




Benedetto Gareth, o Benet Garret, detto il Cariteo (Barcellona, 1450 circa – Napoli, 1514), poeta, oratore, letterato e musicista spagnolo naturalizzato italiano, di origine catalana. Nelle rime amorose, egli cantò la donna del cuore, sotto il nome di Luna; ; nelle rime d'argomento storico e politico inneggiò agli Aragonesi. Nei poemetticongiunse elementi sacri e profani, antichi e moderni.


mercoledì 18 novembre 2009

Ryszard Kapuściński poeta


Il polacco Ryszard Kapuściński è noto in Italia come scrittore, soprattutto di viaggi, avendo messo a frutto nei suoi libri le esperienze di giornalista inviato in Africa, Iran e Unione Sovietica. Suo, ad esempio, è “In viaggio con Erodoto”, dove le storie di duemilacinquecento anni fa si fondono con quelle di oggi negli stessi luoghi e servono da guida. Questo invece è il suo lato meno noto, quello più nascosto di poeta:

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IL POETA ARNOLD SLUCKI IN VIA NOWY SWIAT

Prima
di andarsene per sempre
a Gerusalemme
camminava per via Nowy Swiat
guardava senza vedere niente
un vecchio cappotto senza un bottone
la fronte sempre sudata

le tasche piene di poesie

le tirava fuori una dopo l’altra
davanti a un portone
me le metteva in mano
e me le faceva leggere


È buona?
Non è buona

Dispiaciuto
prendeva la successiva
la quinta la decima

Alla fine trasse di tasca una colomba
E questo cos’è? domandai


Non lo vedi?
La mia ultima poesia!
Non sai che un uccello è una poesia?
Poesia che vola?

(da Blocco note, 1986)

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Forse la cosa più grande
si dice con un silenzio.
Come l’universo.

La parola
è solo un’apparenza?
Un tentativo di afferrare
l’inafferrabile?

Diffida delle parole
che lanciano falsi segnali
conducono a vicoli ciechi
portano alla tentazione.

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OXFORD

La notte
tra sabato e domenica
in questa città
non concilia il sonno
nella via principale rumore di pneumatici
grida si muovono sotto le finestre
sono discorsi allegri e superficiali
non posso dormire
leggo in una rivista che
l’infarto di solito colpisce le sue vittime
tra le 8.00 e le 9.00 del mattino

sono le 2.15.

(da Leggi naturali, 2006)

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FIN DE SIÈCLE

I

Oh signora come sei argentea
con questo vestito chiaro brilli come una stella
e sulle spalle hai una stola come una nube
e sotto la nube scintilla una perla.

Oh signora come sei dorata
quando la sera in piedi alla luce di una candela
con un gesto leggero come la carezza del vento
aggiusti davanti allo specchio i tuoi capelli rossi.

Oh signora come sei nuda
quando giacendo in questo letto rosa
i indichi con un gesto che è giunto il momento
per me di entrare nel tuo giardino.

(da Taccuino d’appunti, 2004)

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Fotografia © Polska Światu

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LA FRASE DEL GIORNO
Le parole che aprono i tuoi occhi al mondo sono spesso più facili da ricordare.
RYSZARD KAPUŚCIŃSKI




Ryszard Kapuściński
(Pinsk, Bielorussia, 4 marzo 1932 – Varsavia, 23 gennaio 2007),  giornalista, scrittore e saggista polacco. Corrispondente dall'estero (1962-81) dell'Agenzia di stampa polacca, ha saputo unire alla lucidità di osservazione del giornalista la profondità di riflessione e di analisi psicologica, il gusto per la metafora, l'affabulazione del grande narratore.


martedì 17 novembre 2009

Bimillenario di Vespasiano

“Al figlio Tito che gli rimproverava di aver avuto l’idea di porre una tassa persino sull’orina, mise sotto il naso la prima somma proveniente da quell’imposta, chiedendogli «Sei offeso dall’odore?» E rispondendogli Tito negativamente, riprese: «Eppure viene dall’orina!»”. Da questo celebre passo di Svetonio deriva la fama di Tito Flavio Vespasiano, imperatore romano nato a Rieti duemila anni fa, il 17 novembre del 9 dopo Cristo.

Pochi ricordano che questo sabino di modeste origini combatté in Britannia tra il 43 e il 47 e portò la guerra in Giudea tra il 67 e il 69 e che, divenuto imperatore dapprima contro Vitellio, poi con il beneplacito del Senato, riuscì a sedare la guerra civile, a rafforzare le frontiere e a dare il via ai lavori del Colosseo, il cui vero nome è Anfiteatro Flavio. Ma tutti conoscono questa storiella delle latrine, che ha portato addirittura a dare il nome di “vespasiano” al gabinetto pubblico. La storia sa davvero essere beffarda…

Vespasiano fu per un certo verso uno speculatore edilizio: aveva un accento insopportabile e non conosceva bene la grammatica, ma sapeva come fare soldi – le tasse, il saccheggio di Gerusalemme – e aggirare il Senato. “Pecunia non olet”, il denaro non puzza, fu il suo motto. Così, forse per elevarsi dalle umili origini, amava l’arte e l’insegnamento: diffuse la pubblica istruzione, affidando al retore Quintiliano un posto di grande prestigio; allargò il potere ai ceti medio-bassi, elevando piccoli imprenditori, burocrati, affaristi, esattori. Il fatto è che la dissennata gestione di Nerone aveva lasciato un enorme debito pubblico nella Roma imperiale. Sembra quasi una ripicca la costruzione del Colosseo sui resti della Domus Aurea neroniana: un grande edificio dove si sarebbero messi in scena spettacoli per la plebe. Ma Vespasiano diede il via a un progetto che ridisegnò l’Urbe e che la sua dinastia, i Flavi, proseguirono: il Palatino, il Tempio della Pace, il Campidoglio, il Campo Marzio nacquero allora.

Vespasiano, violento e poco democratico, riuscì a risollevare le sorti finanziarie di Roma e a costituire la sua dinastia: alla sua morte, avvenuta alle terme di Cutilie, in Sabina, nel 79, gli successe Tito, che avrebbe portato avanti l’imponente programma delle opere pubbliche.

 

Busto di Vespasiano (Mosca, Museo Pushkin)

 

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LA FRASE DEL GIORNO
Il bisogno innalzò i troni, le scienze e le arti li hanno consolidati.
JEAN-JACQUES ROUSSEAU, Discorso sulle scienze e sulle arti

lunedì 16 novembre 2009

Due poesie di Sciascia

LEONARDO SCIASCIA

DUE CARTOLINE DAL MIO PAESE

1

Il paese del sale, il mio paese
che frana - sale e nebbia -
dall’altipiano a una valle di crete;
così povero che basta un venditore
d’abiti smessi - ridono appesi alle corde
i colori delle vesti femminili -
a far festa, o la tenda bianca
del venditore di torrone.
Il sale sulla piaga, queste pietre
bianche che s’ammucchiano
lungo i binari - il viaggiatore
alza gli occhi dal giornale, chiede
il nome del paese - e poi in lunghi convogli e
scendono alle navi di Porto Empedocle;
il sale della terra - “e se il sale
diventa insipido
come gli si renderà il sapore?”
(E se diventa morte,
pianto di donne nere nelle strade,
fame negli occhi dei bambini?).


2

Questo è il freddo che i vecchi
dicono s’infila dentro le corna del bue;
che svena il bronzo delle campane,
le fa opache nel suono come brocche di creta.
C’è la neve sui monti di Cammarata,
a salutare questa neve lontana
c’erano un tempo festose cantilene.
I bambini poveri si raccolgono silenziosi
sui gradini della scuola, aspettano
che la porta si apra: fitti e intirizziti
come passeri, addentano il pane nero,
mordono appena la sarda iridata
di sale e squame. Altri bambini
stanno un po’ in disparte, chiusi
nel bozzolo caldo delle sciarpe.

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Tuttolibri ha pubblicato in anteprima queste due poesie, edite dall’associazione “Amici di Leonardo Sciascia” in occasione del ventennale della scomparsa dello scrittore, con otto incisioni, testi di Roberto Roversi e Angelo Scandurra. Sono versi del 1952, stampati da Sciascia in una plaquette con disegni di Emilio Greco: solo 111 copie con il titolo “La Sicilia, il suo cuore”.

E proprio la Sicilia è la vera protagonista di queste poesie: non è difficile immaginarsi quella Racalmuto tanto cara allo scrittore, che ora vi campeggia in statua in una via nell’atto di passeggiare. La curiosità sta appunto nella forma, nella rarità della forma poetica nell’opera di Sciascia, finissimo narratore: visto l’ottimo risultato, è un peccato che non si sia cimentato di più con la poesia. Questi 35 versi hanno l’afflato del Novecento, sanno davvero rendere il “cuore” dell’isola e tutti i suoi tormenti: l’attualità di quel “mio paese che frana” è crudamente imbarazzante, se dopo quasi sessant’anni la situazione non è migliorata, non è riuscita a far sembrare lontane e sbiadite queste due “cartoline”.

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Fotografia di Davide Mauro

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LA FRASE DEL GIORNO
«In Sicilia le nevicate sono rare» pensò: e che forse il carattere delle civiltà era dato dalla neve o dal sole, secondo che neve o sole prevalessero. Si sentiva un po' confuso. Ma prima di arrivare a casa sapeva, lucidamente, di amare la Sicilia: e che ci sarebbe tornato.
LEONARDO SCIASCIA, Il giorno della civetta




Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989), scrittore e poeta italiano.  Spirito libero e anticonformista, lucidissimo e impietoso critico del nostro tempo, all'ansia di conoscere le contraddizioni della sua terra e dell'umanità, unì un senso di giustizia pessimistico e sempre deluso.


domenica 15 novembre 2009

L’uomo che raccoglie le ninfee

ALFONSO GATTO

TREGUA

Chi s'avventura nella pioggia, in mezzo
ai sepolcri splendenti della pioggia
dove il bianco annerisce nei millenni
d'un giorno, travestito e nudo a foggia
degli scampati, vinto dal ribrezzo
della sua carne, parla solo a cenni
d'un silenzio di là dall'altro mondo
dov'egli apparve e fu guerriero. Il sole
più non ricorda, non ricorda voce,
ma la cenere putrida sul fondo
della palude, un segno le parole
scritte sul fango con la stessa croce.
Son cadute le reggie, le scalee
portano al cielo, e l'uomo che raccoglie
sull'iride dell'acqua le ninfee
dell'amor suo parla con le foglie.

(da La storia delle vittime, 1965)

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È lo stesso Alfonso Gatto a spiegare l’origine di questa sua poesia: “Così vidi su una foto un soldato giapponese lacero che si lasciava piovere addosso, nel silenzio d’un campo dopo la battaglia. Aveva la mano sospesa come se parlasse solo o come se ascoltasse il nascere dei fiori nell’acqua”. La guerra, tutto il suo orrore, sono l’argomento della “Storia delle vittime”, opera di Gatto che riunisce poesie scritte in epoche diverse e che raccoglie, oltre alle poesie sulla Resistenza e sull’”amore per la vita” in quel travagliato periodo, il “giornale di due inverni”, quello di guerra 1943-44 e quello più tranquillo – anche se non bisogna dimenticare che era già in corso la guerra del Vietnam - del 1964-65. E tutto l’orrore, quello che porta alla follia, è espresso attraverso gli occhi di questo soldato giapponese sconfitto, che attraversa con lo sguardo e la memoria la battaglia conclusa, che rivede i corpi esanimi dei caduti quasi attraversasse un cimitero. Il suo parlare è rotto, non è più voce umana, ma un’espressione del buio che è sceso dentro di lui dove tutto si confonde e si riduce a quella “cenere putrida” lasciata dalla guerra. L’ultima strofa apre alla speranza, all’amore che irrompe con un’immagine di dopoguerra: la donna di cui il soldato parla con tenerezza alle grandi ninfee in questa tregua tra una battaglia e l’altra.


Fotografia © the Vietnam War Era


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LA FRASE DEL GIORNO
Nessun catalogo di orrori ha mai distolto l’uomo dalla guerra.
ERNEST HEMINGWAY, Dal nostro inviato Ernest Hemingway




Alfonso Gatto (Salerno, 17 luglio 1909 – Orbetello, 8 marzo 1976), poeta e scrittore italiano. Ermetico, ma di confine, giornalista e pittore, insegnante di Letteratura all'Accademia di Belle Arti, collaboratore di “Campo di Marte”, la sua poesia è caratterizzata da un senso di morte che si intreccia al vivere.


sabato 14 novembre 2009

Agazia Scolastico

Avvocato (scholasticus) a Costantinopoli al tempo di Giustiniano, nel VI secolo dopo Cristo, Agazia  Scolastico, genero del funzionario di corte e poeta Paolo Silenziario, raccolse un’antologia di epigrammi di contemporanei, confluiti nell’Antologia Palatina con il nome di Ciclo di Agazia. Oltre agli epigrammi, dei quali un centinaio sono contenuti nell’antologia, Agazia scrisse la Δαφνιακά, un poema elegiaco in nove libri, brevi descrizioni di miti eroici e cinque libri di “Storie” che registrano gli avvenimenti accaduti tra il 552 e il 558, fonte importante per la conoscenza dell’Iran pre-islamico.

Delle due poesie qui riportate, la prima è una considerazione sulla fugacità dei poteri umani cui solo la gloria è in grado di resistere, l’altra è il grido di nostalgia di un uomo che si trova lontano da casa per lavoro e si sente infelice pur nel rigoglio della primavera in un luogo molto bello. Le mirabili traduzioni sono di Salvatore Quasimodo: non rispettano appieno la filologia del testo greco, ma lo rendono con una modernità apprezzabile per noi lettori del XXI secolo.

 

O CITTÀ, DOVE SONO LE TUE MURA

O città, dove sono le tue mura,
i ricchi templi, le teste dei buoi
sacrificati? E il peplo tutto d’oro,
gli alabastri di Pafo? Dov’è più
il simulacro di Atena? Ogni cosa
ti fu tolta dalla guerra, dal lungo
scorrere del tempo e dalla potente
Moira, mutando così la tua sorte.
L’invidia vinse anche te: solo il nome
e la tua gloria non riuscì a oscurare.

 

LA TERRA VERDEGGIANTE SOTTO I RAMI

a Paolo Silenziario

La terra verdeggiante sotto i rami
in fiore mostra qui grazia di fronde
ricche di frutti. Qui cantano all’ombra
dei cipressi gli uccelli ai loro teneri
nati, il fringuello gorgheggia e la tortora
si lamenta tra le spine
del roveto. Ma io non sono felice;
vorrei sentire la tua voce dolce
più del suono della cetra di Delo.
Anzi due desideri mi tormentano,
vedere te, mio caro, e la fanciulla
che nel ricordo
mi consuma. Ma il lavoro mi tiene
lontano dalla mia agile gazzella.

 

Scolio dall'Antologia Palatina con il testo di Agazia

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LA FRASE DEL GIORNO
Ogni uomo in buona salute può fare a meno di mangiare per tre giorni; della poesia, mai.
CHARLES BAUDELAIRE, L’art romantique




Agazia Scolastico (Myrina, 536 circa – Costantinopoli, 582 circa), poeta e storico bizantino, fonte principale per parte del regno di Giustiniano I. Nel centinaio di epigrammi pervenutici, vi è maestria di verso e ricercata eleganza di lingua, ma anche prolissità verbosa e mancanza di brio. Più brevi e più veri sono quelli erotici, di tono però assai lubrico.



venerdì 13 novembre 2009

Il diavolo in corpo

A metà dicembre del 1920, in una fredda giornata parigina, Picasso e Brancusi seguivano il feretro bianco di un amico, morto ventenne di febbre tifoidea. Jean Cocteau invece non ne ebbe la forza, chiuso nella disperazione, lui che aveva vegliato il ragazzo e che al suo capezzale nella clinica di Rue Piccinni si era sentito dire “Udite una cosa terribile: fra tre giorni sarò fucilato dai soldati di Dio”.

Quel ventenne era Raymond Radiguet, autore di un romanzo, “Il diavolo in corpo”, scritto a soli diciotto anni e pubblicato da Grasset con un battage pubblicitario assolutamente nuovo per l’epoca. L’opera, parzialmente autobiografica, ebbe un successo clamoroso, anche grazie alle narrazioni scabrose: racconta infatti di un amore anticonformista tra un adolescente e una donna il cui marito è al fronte, durante la Prima guerra mondiale. Radiguet è conscio della delicatezza del tema: “Devo aspettarmi dei rimproveri” così comincia “Ma che posso farci? È colpa mia se compii dodici anni qualche mese prima che la guerra fosse dichiarata? (…) Era destino che mi comportassi come un bambino in un’avventura che avrebbe messo in difficoltà persino un adulto”. E l’inquietudine, lo smarrimento, la rivolta morale di quei giovani diventano parte della storia; Radiguet ne parla con sincerità disarmante, con uno stile puro e incantevole, con una lucidità inaspettata in un ragazzo: “La mia lungimiranza era solo una forma più pericolosa della mia ingenuità. Mi giudicavo meno ingenuo, ma lo ero sotto un’altra forma, poiché nessuna età sfugge all’ingenuità. Nemmeno la vecchiaia. Questa presunta lungimiranza mi annebbiava tutto, mi faceva dubitare di Marthe. O meglio, dubitavo di me stesso, perché non mi ritenevo degno di lei”.

Non si sa chi abbia il “diavolo in corpo”, se sia l’irruente ragazzo o la donna infelice di un matrimonio che non voleva, più probabilmente entrambi: “Per la prima volta, mi sentiva pronunciare la parola «morale». Quella parola capitò a meraviglia, giacché anche lei, così poco cattiva, doveva pur attraversare crisi di coscienza, come me, sulla moralità del nostro amore”. Alla fine il protagonista troverà nel “richiamo all’ordine” la soluzione al tabù della differenza d’età e alla riprovazione dell’amare la donna di un soldato in guerra: “L’ordine, alla lunga si dispone spontaneamente attorno alle cose” si legge nelle righe finali del romanzo, concluso da una tragedia ma vivificato dalla speranza.

 

Egon Schiele, “L’abbraccio”

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LA FRASE DEL GIORNO
Ogni amore ha una giovinezza, una maturità, una vecchiaia.
RAYMOND RADIGUET, Il diavolo in corpo




Raymond Radiguet 
(Saint-Maur-des-Fossés, 18 giugno 1903 – Parigi, 12 dicembre 1923), scrittore e poeta francese. Artista precocissimo, è ricordato per due romanzi dallo stile misurato e dalla classica armonia: Le diable au corps, libro fermo, conciso, lucido, privo d'aura romantica, e Le Bal du Comte d'Orgel, poeticamente frammentario.


giovedì 12 novembre 2009

L’ombra a rovescio del cielo


SALVATORE QUASIMODO

PRESSO L'ADDA

Striscia l'Adda al tuo fianco nel meriggio
e segui l'ombra a rovescio del cielo.
Qui, dove curve pecore risalgono
con il capo affondato dentro l'erba,
saltava l'acqua a taglio della ruota,
e s'udiva la mola del frantoio
e il tonfo dell'uliva nella vasca.
Tu solo ti sgomenti a un moto spento.
Riappare la corona del sambuco
dal fitto della siepe e agita la canna
nuove foglie sugli argini del fiume.
La vita che t'illuse è in questo segno
delle piante, saluto della terra
umana alle domande, alle violenze.
Il riaprirsi del legno in un colore
è certezza per te, come l'insidia
del tuo sangue e la mano che distesa
alzi alla fronte a schermo della luce.

(da "Giorno per giorno", 1947)

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A Imbersago, Brianza lecchese, nel piazzale dove ci si imbarca sul traghetto di disegno leonardesco che attraversa il fiume Adda, c’è una lapide sul muro con incisa questa poesia di Salvatore Quasimodo. Una scelta davvero azzeccata: ci si mette lì un po’ di profilo e, leggendola, si possono tradurre quelle parole in immagini, come se fosse un film. Ecco il cielo riflettersi nell’acqua e le nuvole che fanno a gara con i germani nello sguazzare; ecco i boschi della sponda dove ancora raramente capita di incontrare le greggi, soprattutto d’inverno, e di notare i loro bioccoli lanosi appesi a qualche spina di roveto. Se non c’è la mola del frantoio, è possibile trovare qualche manufatto per lo scolo delle acque; di certo per tutta la bella stagione c’è il sambuco, dapprima odoroso con i suoi fiori bianchi, poi adornato delle sue belle bacche scure; le canne palustri agitano al vento le loro chiome, riempiendo vasti tratti in prossimità della riva.

 

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Adesso è normale apprezzare questa tranquillità, questo scenario di pace: quando Quasimodo scrisse questa poesia, inserita in “Giorno dopo giorno”, raccolta che comprende celebri liriche come “Alle fronde dei salici”, “Milano 1943” e “Uomo del mio tempo”, la guerra era ancora un freschissimo ricordo, probabilmente si era conclusa da poco. Il poeta siciliano iniziò in quel periodo ad usare una forma meno ermetica, per dire con più chiarezza il rifiuto della violenza, l’apertura all’umanità. È nelle due strofe finali che Quasimodo trova risposte alle sue domande: la vita a primavera riemerge, le piante rinverdiscono, porgono il loro saluto alla terra in un emblema della lotta dell’umano al disumano, così diverso dall’«erba maligna» che «tra tombe di macerie (…) solleva il suo fiore» in “19 gennaio 1944”. E in questa rigogliosa natura anche il poeta adesso ritrova la sua certezza, mentre con la mano fa schermo agli occhi, abbacinati dai riflessi dell’Adda.

 

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LA FRASE DEL GIORNO
E ora / che avete nascosto i cannoni fra le magnolie, / lasciateci un giorno senz’armi sopra l’erba / al rumore dell’acqua in movimento, / delle foglie di canna fresche tra i capelli / mentre abbracciamo la donna che ci ama.
SALVATORE QUASIMODO, La vita non è sogno, “Anno Domini MCMXLVII”




Salvatore Quasimodo (Modica, 20 agosto 1901 – Napoli, 14 giugno 1968), poeta e traduttore italiano, esponente di rilievo dell'ermetismo.  Essenziale ed epigrammatico, ha  temperato gli influssi originari in un linguaggio poeticamente sempre più autonomo, che libera un’intensa sensualità in trepide visioni. Premio Nobel per la letteratura 1959 “per la sua poetica lirica, che con ardente classicità esprime le tragiche esperienze della vita dei nostri tempi”.


mercoledì 11 novembre 2009

Pascoli e l’estate di San Martino

GIOVANNI PASCOLI

NOVEMBRE

Gèmmea l'aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l'odorino amaro
senti nel cuore...

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. È l'estate,
fredda, dei morti.

(da "Myricae", 1903)

Giovanni Pascoli è un poeta cui l’autunno è congeniale: è la stagione che gli consentì di esprimere appieno la sua sensibilità, tempo adatto alla sua dolce tristezza, emblematico del lento finire di ogni cosa. “Novembre” è una delle poesie più suggestive: racconta la breve estate di san Martino, quella che gli americani chiamano “indian summer”, estate indiana. Pascoli era un maestro nell’uso delle strofe e nel gioco linguistico: qui ne troviamo un esempio molto calzante. La prima strofa rende la giovinezza, l’illusione, la speranza: si crede che sia giunta primavera: l’aria è chiara, il sole tiepido, sembra quasi possibile alzare gli occhi e scorgere i bianchi fiori degli albicocchi, quelli rosa dei peschi, l’aroma aspro e dolce a un tempo del biancospino. La seconda strofa rappresenta la maturità, la disillusione, il ritorno nella realtà: in effetti gli alberi sono secchi e spogli, i rami si tendono nudi verso quel cielo, l’idea di morte comincia a trapelare attraverso l’analogia del terreno che sembra vuoto; l’uso di termini appropriati (secco, stecchite, nere, vuoto, cavo) origina un climax che prepara alla terza strofa. Qui il poeta compie una sintesi: il paragone tra le due strofe precedenti lo porta a constatare tristemente l’unica vera realtà, quella del freddo novembre che le leggi della natura hanno riportato sulla terra. Altro che primavera…


Serghei Ghetiu, "Estate indiana"


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LA FRASE DEL GIORNO
Il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e nessuno avrebbe detta.
GIOVANNI PASCOLI, Prose e discorsi




Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855 – Bologna, 6 aprile 1912), poeta e accademico italiano, eccelso latinista, figura emblematica della letteratura di fine Ottocento. Nonostante la sua formazione eminentemente positivistica, è il maggiore esponente del Decadentismo.