venerdì 30 aprile 2010

Ti ho amato per ore senza tregua

LUCIA RIVADENEYRA

SUONANDO I TUOI SILENZI

Tiepide lenzuola umide, pori aperti,
respirazioni epilettiche
mi hanno fatto scendere le scale dell’inferno
mi bruciavano le mani, il mio ventre era dorato.

E nel fuoco della stanza tra le ombre
ho suonato i tuoi silenzi
e al cadere delle spalle come chi è colpito da un fulmine
ti ho amato per ore senza tregua.

La tua lingua-brace, le tue dita-polipi
hanno trovato il fondo nella schiuma calda
del mio mare traforato.
Si decretò la marea - fuga dalla battaglia!
e il crepuscolo si presentò
come un fantasma che gioca con le luci
e si imbroglia nei colori.

Più tardi, con un salto di cervo ferito,
sonnolenta, anestetizzata, violacea,
ti ho invitato a prendere il toro del peccato per le corna
abbiamo aperto la porta,
ed è entrata come un aroma di valeriana
la notte fresca.

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Della poetessa messicana Lucia Rivadeneyra abbiamo già visto una breve poesia d’amore, “Dicono”. Questa invece sposta un po’ più in là l’asticella: entra nei territori affascinanti di un erotismo delicato, evocato per mezzo di analogie. L’amore fisico è espresso attraverso immagini di pura poesia dove il mare riveste un ruolo fondamentale: “Una donna di mare ama i naufraghi / del sogno” dice la Rivadeneyra in un’altra poesia. E ancora, riferendosi a quel sentirsi “anestetizzata” dopo l’amore: “Solo si tratta delle tue mani / che sogno, per cui vivo e mi struggo / nonostante l’anestesia del tempo”.



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LA FRASE DEL GIORNO
L'amore è donare, anche il sesso, certo. Il piacere è unione, bisogno di essere insieme, dare.
GIORGIO SAVIANE, Il terzo aspetto




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Lucía Rivadeneyra (Morelia, 26 agosto 1957), poetessa messicana. Insegnante di giornalismo e letteratura all’UNAM, ha pubblicato numerose raccolte dove protagonisti sono l’amore appassionato, l’erotismo e la solitudine.


giovedì 29 aprile 2010

Della metafisica

Dare una spiegazione ultima e definitiva di tutta la realtà e del sapere: questo è il fine della metafisica. In altre parole atteggiarsi a Dio. È la parte della filosofia che tratta i principi primi della realtà, posti al di là di ogni esperienza. Quelli che nell’edizione di Aristotele curata da Andronico di Rodi nel I secolo avanti Cristo erano posti dopo la sezione riguardante la natura, la Fisica, e quindi μετά τά φυσικά, metà tà phusikà. Aristotele tra l’altro la definiva “scienza prima” e precisò che suo oggetto è l’ente in quanto tale, la realtà considerata nei suoi aspetti universalissimi comuni a tutte le realtà determinate.

Ma non a tutti piace la metafisica, molti pongono in risalto la sua supponenza, la sua pretesa di scientificità, di superiorità di fronte alle altre scienze. Già nei Disticha Catonis medievali, qui volgarizzati da un anonimo toscano, si può leggere: “Lassa stare le segrete cose del cielo e ad inchierere che cosa sia lo cielo; e con ciò sia cosa che tu sii mortale, cura quelle cose che sono mortale”. E nel Settecento il moralista francese Nicolas de Chamfort osserva: “Io direi volentieri degli speculatori metafisici ciò che lo Scaligero diceva dei Baschi: «Si dice che tra loro si capiscono, ma io non lo credo affatto»”. Ci va giù ancora più duro il filosofo scozzese David Hume, contemporaneo di Chamfort: “Se ci viene alle mani qualche volume, per esempio di teologia o di metafisica scolastica, domandiamoci: Contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità o sui numeri? No. E allora gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie ed inganni”.

Ma la definizione più sprezzante, venata di un humour tipicamente britannico, è quella attribuita a Lord Bowen, giudice inglese dell’Ottocento, che parlando a proposito di un filosofo metafisico disse: “Un cieco in una stanza buia che cerca un cappello che non c’è”.

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Willy Baumeister, “Paesaggio metafisico”

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LA FRASE DEL GIORNO
Nessuna invenzione è stata più facile all’uomo di quella del cielo. 
GEORG CHRISTOPH LICHTENBERG, Osservazioni e pensieri

mercoledì 28 aprile 2010

Segni di vita

ALFONSO GATTO

AMORE DELLA VITA

Io vedo i grandi alberi della sera
che innalzano il cielo dei boulevards,
le carrozze di Roma che alle tombe
dell’Appia antica portano la luna.

Tutto di noi gran tempo ebbe la morte.

Pure, lunga la vita fu alla sera
di sguardi ad ogni casa, e oltre il cielo,
alle luci sorgenti ai campanili
ai nomi azzurri delle insegne, il cuore
mai più risponderà?

Oh, tra i rami grondanti di case e cielo
il cielo dei boulevards,
cielo chiaro di rondini!

O sera umana di noi raccolti
uomini stanchi uomini buoni,
il nostro dolce parlare
nel mondo senza paura.

Tornerà tornerà,
d’un balzo il cuore
desto
avrà parole?
Chiamerà le cose, le luci, i vivi?

I morti, i vinti, chi li desterà?

(da La storia delle vittime, 1947)

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È della primavera di guerra del 1944 questa poesia di Alfonso Gatto: in quel periodo cupo e terribile con l’invasore tedesco in Italia e l’incertezza sul destino degli eventi, il poeta riesce a scovare labili segni di amore, di attaccamento alla vita. In realtà sono segni che cerca disperatamente di vedere e ricordare: la dolcezza delle sere romane, il volo delle rondini, il cielo limpido e azzurro che come vernice copre le case e gli alberi.

La luna che risplende sopra uomini intenti a parlare, a collegare gli avvenimenti, è una speranza accesa nella notte diventata anch’essa non più fredda ma tiepida e piacevole, come un segno di speranza umana, un annuncio di una nuova vita. E con la forza di questa gioia sarà possibile credere nell’uomo e nella sua liberazione.

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Fotografia © Daniele Riva

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LA FRASE DEL GIORNO
Sembra un vano delirio questo credere alle cose.
ALFONSO GATTO, La storia delle vittime, “Le cose”




Alfonso Gatto (Salerno, 17 luglio 1909 – Orbetello, 8 marzo 1976), poeta e scrittore italiano. Ermetico, ma di confine, giornalista e pittore, insegnante di Letteratura all'Accademia di Belle Arti, collaboratore di “Campo di Marte”, la sua poesia è caratterizzata da un senso di morte che si intreccia al vivere.


martedì 27 aprile 2010

Un viaggio negli Anni ‘60


UMBERTO PIERSANTI

PER UN'ESTATE DEGLI ANNI '60

Non era ad aprile questo vento intirizzito
lo spessore grigio degli spruzzi
i vicoli verdastri di pomeriggi
lenti, appiccicati sulle tele
e la pelle dell’estate ambrata
splendida per i soli artificiali
di notturne balere cerchiate
da una campagna ostinata
alle ferite di metalli lucidi
del cemento invetriato, all’insulto
di carte argentate, delle plastiche sparse
un’estate ormai languida, dissolta
in scroscio potente d’acqua.
Avevo saputo allora del surf
le moschee di calce di Marrakech
a luglio t’eri oscurato ad Agadir
il biondo aristocratico della pelle
a causa della sabbia e per il corallo
bluastro sotto le rupi di mare
quindi, prima della fine d’estate
senza ragione eri venuta
in queste mie piazze luminose
composte tra chiari palazzi
della Rinascenza e valli
d’Appennino zeppe di pievi.
Intatto di rupi e rocche
scendemmo per stradini nel Montefeltro
a piedi, i tuoi calzoni bianchi attillati
i primi così sexy dalla città
presagio d’altri decenni e differenti.
Era l’ultimo atto d’adolescenza
alla dolcezza scoperta delle membra
il centro della carne già pervenuto
nei languori umidi dei pomeriggi
una spossatezza adulta.
Le gocce frantumate nelle cole
il libro di Pavese sopra il letto
nell’albergo deserto erano i tuoi vestiti
splendidi e fitti come mai visti.
Jet-society era una parola sconosciuta
la sera che partivi da Fiumicino
un aeroporto di luci nel settembre.

1972

(da Tra alberi e vicende, Archinto, 2009)

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Umberto Piersanti ci proietta in un viaggio nel tempo e la macchina che consente questo miracolo è la poesia: grazie a questi versi dalla costruzione quasi labirintica, delinea un paesaggio dell’anima, quello della sua città, Urbino, e del Montefeltro, nel quale si innesta una storia d’amore colta nel minimalismo della sua dimensione esistenziale.

È un’estate degli Anni Sessanta, di quelle che ritroviamo in vecchie commedie balneari, con il juke-box che suona “Una rotonda sul mare”, “Abbronzatissima”, “Sapore di sale”. Un’epoca di benessere e di boom economico, ancora spensierata, l’età d’oro sospesa tra gli affanni della ricostruzione e i duri anni politici del terrorismo. È una società che cambia, che si automatizza e che guarda all’America, una società dove il ruolo della donna inizia ad assumere una valenza diversa. E la rivoluzione culturale può cominciare anche da un paio di pantaloni bianchi sexy e attillati.

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Immagine © Vespa

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LA FRASE DEL GIORNO
Solo ciò che è trascorso o mutato o scomparso ci rivela il suo volto reale.
CESARE PAVESE, Racconti, Terra d’esilio


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Umberto Piersanti (Urbino, 26 febbraio 1941), poeta italiano. Docente di Sociologia ad Urbino, ha pubblicato numerose raccolte poetiche, tra cui La breve stagione (1967), I luoghi persi (1994), L’albero delle nebbie (2008), ed è anche autore di romanzi e opere di critica.


lunedì 26 aprile 2010

Ana Milena Puerta

Ana Milena Puerta è una poetessa colombiana, nata a Cali nel 1961. Ha compiuto studi di comunicazione sociale, pubblicità e belle arti. Ha pubblicato tre raccolte di poesie: “Acto de palabras” (1986), “A contrapelo” (1994) e “Galaxia triste, 1995-2001” (2002). Come lei stessa scrive “Considero che le arti, la sua produzione, sono il decantare della cultura, la sua essenza”. E “l’opera d’arte è il linguaggio che abbiamo scelto per osservare il mondo e il nostro paese”.

Presento qui una carrellata dei suoi versi, agili e leggeri ma capaci di sollevare domande sull’esistenza e sull’amore, sulla valenza del ricordo, sul nostro vivere quotidiano.





VERO

Nella tua cattiva memoria
mi replico
non mi riconosci

sono
ogni volta
terra promessa
perché tu
ogni giorno
inauguri in me un altro regno.

Così il vero amore:
come il vero oblio.

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AMBIGUITÀ

La linea è delicata
e molto sottile
ho paura di calpestarla
ignoro da quale lato sto,
provo piacere
e pericolo;
elaboro il mio contorno
invento i giorni
e mi accomodo
sul foglio a me assegnato.

La calpesterò
la spezzerò.

Uno di questi giorni.

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SINCERAMENTE

Quest’altro
luminoso e allegro
che fosti una volta,

quello che cantava nella mia doccia
e si nutriva della mia carne
quest’altro

è mio.

E non ha niente a che vedere con te.

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SOLIDALE

Allora
inventerò rondini
per accendere questo sole
che tanto ci fa male.

Ma non farti illusioni:
perché io non fabbrico uccelli
né conservo soli;
soltanto mi dolgo con te
e aspetto la notte.

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PREGHIERA DEGLI INSAZIABILI

Ricordo di aver detto
che detesto i rompicapi,
il tempo che muore
mentre si predispongono,
e una volta conclusi
guardarli
- tristemente -
come chi sa che i suoi giorni
fuggono da una finestra
e non può trattenerli.
Per questo chiedo
che la mia vita scorra completa
che mi si versi il mondo,
che la luce mi insegua,
che io abbia le mani così piene
e che il suo peso sia così grande
da non poterlo reggere. Amen.

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LA FRASE DEL GIORNO
Un poeta può vedere le stelle anche quando non si vedono, e viceversa poi non vedere tant'altre cose che tutti gli altri vedono.
LUIGI PIRANDELLO, Novelle per un anno, Risposta




Ana Milena Puerta (Cali, 1961), poetessa colombiana. Ha studiato Comunicazione Sociale all'Università del Valle e ha lavorato come coordinatrice di festival d'arte e nel giornalismo. Tra le sue raccolte: Atto di parole (1986), Contro il grano (1994), Galassia triste (2002). Ha ottenuto il Premio Carlos Castro Saavedra.



domenica 25 aprile 2010

Ogni guerra è una guerra civile


CESARE PAVESE

TU NON SAI LE COLLINE


Tu non sai le colline
dove si è sparso il sangue.
Tutti quanti fuggimmo
tutti quanti gettammo
l'arma e il nome. Una donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro, tacendo.
Ora è un cencio di sangue
e il suo nome.
Una donna
ci aspetta alle colline.


9 novembre 1945

(da La terra e la morte, 1947)

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“Ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione” scrive Cesare Pavese nella “Casa in collina”. E questa sua poesia, che ho scelto per celebrare il 25 aprile, ne è la trasposizione in versi. Torto o ragione, ideali, fede, passioni, tutto scompare nella raffica di mitra che stronca il partigiano sulle colline piemontesi. E a chi per viltà o per destino è riuscito a fuggire e a scampare, resta la vita che continua, l’amore che rimane nel cuore. Con la consapevolezza che il sacrificio anche di “uno solo di noi” è stato un mattoncino per costruire la libertà.

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Una scena del film “Il partigiano Johnny” di Guido Chiesa

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LA FRASE DEL GIORNO
Facciamo la guerra per poter vivere in pace.
ARISTOTELE, Etica Nicomachea, X, 7




Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto 1950), scrittore, poeta, traduttore, saggista e critico letterario italiano. Nato poeta con Lavorare stanca, si è poi dedicato alla narrativa scrivendo romanzi famosissimi: Paesi tuoiLa luna e i falòLa casa in collina. I suoi temi principali sono il mito e la terra.


sabato 24 aprile 2010

E ancora ti chiamo Chimera


DINO CAMPANA

LA CHIMERA

Non so se tra rocce il tuo pallido
viso m’apparve, o sorriso
di lontananze ignote
fosti, la china eburnea
fronte fulgente o giovine
suora de la Gioconda:
o delle primavere
spente, per i tuoi mitici pallori
o Regina o Regina adolescente:
ma per il tuo ignoto poema
di voluttà e di dolore
musica fanciulla esangue,
segnato di linea di sangue
nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
ma per il vergine capo
reclino, io poeta notturno
vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
io per il tuo dolce mistero
io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
fu dei capelli il vivente
segno del suo pallore,
non so se fu un dolce vapore,
dolce sul mio dolore,
sorriso di un volto notturno:
guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
e l’immobilità dei firmamenti
e i gonfii rivi che vanno piangenti
e l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
e ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
e ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

(da Canti Orfici, 1914)

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“Il testo poetico è inspiegabile, non inintelligibile” secondo Octavio Paz, Nobel per la letteratura nel 1990. E “La chimera”, un classico della poesia novecentesca ne è l’esempio più efficace: l’ordine compositivo non è tradizionale, i versi si dispiegano senza una conseguenzialità.

Però Dino Campana è riuscito a esprimere l’inesprimibile, che è il compito primo della poesia, ha saputo dare voce all’emozione che gli maturava dentro. Sergio Solmi di questa poesia scrisse che Campana fu in grado “di sciogliersi da ogni legame intellettuale e storico per tuffarsi nella emozione vergine per cogliere il flusso informe della realtà alla sua prima sorgente, per sopprimere il tempo in una smarrita adesione alle cose”. Ovvero, un’allucinata trasposizione della realtà nel sogno, “la lunga notte piena degli inganni delle varie imagini”, nella pazzia che lo portò più volte in manicomio, sulla scia di Nietzsche, da lui molto ammirato, dal quale deriva la passione per l’orfismo.

E allora la chimera viene a rappresentare tante cose: è la figura di una giovane donna che mescola voluttà e dolore, è un’espressione di suggestioni letterarie e artistiche (la Vergine delle Rocce leonardesca, la Cerere-Proserpina regina degli Inferi, la Santa Cecilia dipinta da Raffaello), è una lontana promessa di rivelazione, è un mito misterioso che simboleggia lo scorrere della vita, della quale non riusciamo a cogliere altro che vaghi lampi, come i balenii lontani di un lontano temporale in una calda sera d’estate.

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Leonardo da Vinci, “La Vergine delle Rocce”

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LA FRASE DEL GIORNO
O poesia poesia poesia / Sorgi, sorgi, sorgi / Su dalla febbre elettrica del selciato notturno.
DINO CAMPANA, Canti Orfici




Dino Carlo Giuseppe Campana (Marradi, 20 agosto 1885 – Scandicci, 1º marzo 1932), poeta italiano. l’unico accostabile ai “maudits” del Decadentismo europeo quali Rimbaud. La sua poesia brucia le scorie della tradizione di Carducci e D’Annunzio con un atteggiamento visionario che va oltre le cose e i dati realisticamente intesi. Di lui è nota l’appassionata relazione con Sibilla Aleramo.


venerdì 23 aprile 2010

L’amore di Attilio Bertolucci


ATTILIO BERTOLUCCI

PORTAMI CON TE

Portami con te nel mattino vivace
le reni rotte l'occhio sveglio appoggiato
al tuo fianco di donna che cammina
come fa l'amore,

sono gli ultimi giorni dell'inverno
a bagnarci le mani e i camini
fumano più del necessario in una
stagione così tiepida,

ma lascia che vadano in malora
economia e sobrietà,
si consumino le scorte
della città e della nazione

se il cielo offuscandosi, e poi
schiarendo per un sole più forte,
ci saremo trovati
là dove vita e morte hanno una sosta,

sfavilla il mezzogiorno, lamiera
che è azzurra ormai
senza residui e sopra
calmi uccelli camminano non volano.

(da “Viaggio d’inverno”, 1971)

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È l’amore che passa avanti a tutto, che va a costituire un’oasi dove rifugiarsi dalle contingenze del mondo, dove anche la legge del tempo riesce a essere sospesa per qualche ora. Attilio Bertolucci, sessantenne quando scrisse questi versi, chiede alla moglie di abbandonarsi a questa onda d’amore, di poterla accompagnare, anche solo nella sua memoria, in giro per la città sul finire dell’inverno, senza altri pensieri.

Un amore sensuale ed esclusivo, che trascende la realtà e vive come una cicala d’estate, senza mettere da parte nulla per l’avvenire. Il vero amore che basta a se stesso e chiude egoisticamente fuori tutto il resto, registrandolo semmai come puro fatto statistico.

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Fotografia © Lonelyplanet

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LA FRASE DEL GIORNO
L'amore, che è egoismo in due, sacrifica tutto a sé e vive di menzogne.
RAYMOND RADIGUET, Il diavolo in corpo




Attilio Bertolucci (San Prospero Parmense, 18 novembre 1911 – Roma, 14 giugno 2000), poeta italiano. Le sue opere poetiche sono il risultato di una felice contaminazione tra eredità ermetica e capacità di tradurre ogni astratta eleganza in un discorso poetico naturale.


giovedì 22 aprile 2010

Della speranza

La speranza è l’Ultima Dea, lo stato con cui ci si dispone a una fiduciosa attesa che qualcosa di positivo per noi avvenga. L’esatto contrario della disperazione, l’abbandono inerme nelle braccia del destino. Nella mitologia romana era una divinità allegorica, sorella del Sonno e della Morte, una giovane donna in piedi che con una mano regge un papavero o un mazzo di spighe e con l’altra alza il lembo della veste. Spesso era coronata di fiori e talora era appoggiata a una colonna o a un’ancora. Il suo colore era, ed è tuttora, il verde, simbolo della prima fioritura di primavera, presagio del raccolto.

Nel Cristianesimo la speranza, rappresentata da un’ancora, è una delle tre virtù teologali: per suo mezzo il credente aspetta con fiducia il soccorso della sua grazia durante la vita e la salvezza eterna nel Paradiso.

Il poeta francese Charles Péguy, in un poema dedicato alla speranza, rivendica una sorta di coraggio nell’abbandonarsi ad essa: “È sperare la cosa più difficile, / a voce bassa e vergognosamente. / La cosa facile è disperare / ed è la grande tentazione”. Coraggio, perché compagna della speranza è la paura, il timore che nulla si realizzi, che tutto si trasformi in un’illusione: “Non c’è speranza senza paura né paura senza speranza” recita uno scolio dall’Ethica del filosofo olandese Baruch Spinoza. Così “Chi tutto osa, ha il diritto di sperare molto” secondo William Shakespeare nel “Mercante di Venezia”.

La fiducia è un altro aspetto della virtù: lo stato stesso di attesa viene vissuto con un trasporto che se non è felicità, ne è comunque un apprezzabile surrogato. Aristotele la definisce “un sogno fatto da svegli”, secondo quanto cita Diogene Laerzio nelle “Vite dei filosofi”. Il filosofo tedesco Gottold Ephraim Lessing arriva a postulare che “Aver aspettato una gioia è stato pur sempre una gioia”, anche se Plauto un po’ pessimisticamente nella “Mostellaria” commenta che “Quel che non si spera accade più spesso di quel che si spera”.

È comunque una luce che si accende, un bagliore lontano che fa intravedere una via d’uscita a chi è bloccato nelle gallerie buie della vita: Hermann Hesse nella poesia “Presso Spezia” romanticamente spiega che “Nessuna notte è così greve e così buio mai nessun andare che non vi giunga, dal mattino ormai imminente, di luce un dolcissimo sentore” e in “Rosshalde” sostiene che “È felice chi spera”. Felicità forse no, ma consolazione certamente, a sentire Diogene di Sinope - “Le speranze sono i sonniferi dei nostri dolori” – e Johann Wolfgang Goethe - “La speranza è la seconda anima dell’infelice”.

Sperare allora come modo di vivere? No, come in tutte le cose la via sta nel mezzo, e ce lo ricorda Seneca: “Sarai tu stesso a procurarti motivi di affanno, ora affidandoti alla speranza, ora abbandonandoti alla disperazione? Se sei saggio, unisci una cosa all'altra: non sperare senza disperazione, non disperare senza speranza”.

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Fotografia © Lilfrog

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LA FRASE DEL GIORNO
Se non ci fosse la speranza non ci sarebbe un futuro.
JOHANN GOTTLOB FICHTE

mercoledì 21 aprile 2010

Cos’è l’arte? (IX)


FRANCIS PICABIA

“L’arte è il culto dell’errore”.

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Francis Picabia, “Ridens”    
acquerello su cartoncino, 1929 / collezione privata

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MARC CHAGALL

“Forse la mia arte è un’arte insensata,
un mercurio cangiante, un’anima azzurra
che precipita sopra i miei quadri”.

 

Marc Chagall, “La Mariée”    
pastello, 1950 / collezione privata

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JACQUES-LOUIS DAVID

“Voglio che le mie opere rechino il carattere
dell'antichità, al punto che, se fosse possibile
che un Ateniese tornasse al mondo, gli sembrassero
l'opera di un pittore greco”.

Jacques-Louis David, “Marte disarmato da Venere”   
olio su tela, 1824/ Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique

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LA FRASE DEL GIORNO
Non essere mai soddisfatti: l’arte è tutta qui.
JULES RENARD

martedì 20 aprile 2010

Luzi tra passato e avvenire


MARIO LUZI

OSTERIA


L’autunno affila le montagne, il vento
fa sentire le vecchie pietre d’unto,
spande dal forno un fumo di fascine
a fiotti tra le case e le topaie.
Son dietro questi vetri d’osteria
uno che un nome effimero distingue
appena, guardo. La mattina scorre,
invade a grado a grado l’antro. L’oste
numera, scrive giovedì sul marmo,
la donna armeggia intorno al fuoco, sbircia
verso la porta se entra l’avventore.

Seguo la luce che si sposta, il vento;
aspetto chiunque verrà qui
di fretta o siederà su queste panche.
Il bracconiere, altri non può essere
chi s’aggira per queste terre avare
dove la lepre a un tratto lampeggia,
o il venditore ambulante se alcuno,
raro, si spinge fin quassù alle fiere
ed ai mercati dei villaggi intorno.
Altri non è da attendere: Chi viene
porta e chiede notizie, si ristora,
riparte in mezzo alla bufera, spare.

Che dura è un suono di stoviglie smosse:
guardo verso la macchia e più lontano
dove solo la pecora fa ombra,
mi reggo tra passato ed avvenire
o com’è giusto o come il cuore tollera.


(da Primizie del deserto, 1952)


Due dei miei versi preferiti sono quelli che concludono questa poesia di Mario Luzi: “Mi reggo tra passato ed avvenire / o com’è giusto o come il cuore tollera”. Sostenersi con i ricordi del passato e contemporaneamente tenere il passo allenato alla speranza del futuro, come deve essere o come almeno riusciamo a sopportare.

Per arrivare a questo meraviglioso distico, Luzi descrive gli ambienti e i gesti dimessi della quotidianità di un piccolo borgo toscano: un’osteria di paese. Gozzano aveva scritto: “Io non vivo la vita, l’osservo”, e Luzi sembra fare suo questo motto. Siede a un tavolino e osserva: l’oste scrive il menu del pranzo sulla lastra di maro, la donna rigoverna, di tanto in tanto entra un avventore, il bracconiere o il venditore ambulante, ai quali il poeta si accomuna. Altri avventori non verranno: non giungerà nessuno a travalicare i limiti della giornata umana.

Il poeta si sente coinvolto nel loro destino e con loro guarda scorrere la vita, il suo fluire. Ma, a differenza del bracconiere e dell’ambulante, dell’oste e di sua moglie, quell’uomo dal “nome effimero” ha la consapevolezza di questo fluire e lo accetta, anche se con un filo di rassegnazione, come accetta quel vento – spesso in Luzi simbolo dello scorrere violento del tempo e del misterioso senso dell’esistenza – che soffia pungente a tagliare i profili delle montagne.


Peter Severin Kroyer, "Osteria Ravello"

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LA FRASE DEL GIORNO
Io sono qui, persona in una stanza, / uomo nel fondo di una casa, ascolto / lo stridere che fa la fiamma, il cuore / che accelera i suoi moti, siedo, attendo.
MARIO LUZI, Primizie del deserto




Mario Luzi (Castello di Firenze, 20 ottobre 1914 – Firenze, 28 febbraio 2005), poeta italiano, fu uno dei grandi rappresentanti dell’Ermetismo. Più volte candidato al Nobel, fu insignito della Legion d’Onore. Fu Accademico della Crusca e senatore a vita.


lunedì 19 aprile 2010

Valeri e il nuovo fiore


DIEGO VALERI

VENEZIANA

La biondina è sul balcone,
capo chino, ciglia basse,
tra le pallide erbe grasse
e il geranio vermiglione.

L' aria, i muri, il rio deserto
nel crepuscolo che muore
sono fisi al nuovo fiore
che lassù risplende aperto.

Lei però non ne sa nulla;
monda attenta il suo giardino,
ciglia basse e capo chino.
(Lei non è che una fanciulla.)

Ora par che all'improvviso
l'abbia alcuno nominata.
Guarda intorno trasognata,
leva al cielo il bianco viso.

Gli occhi d'oro van cercando
qualche ignota strana cosa
nella luce dubitosa
del crepuscolo amaranto.

Ma nel cielo non c'è nulla;
spenti i muri, chiuso il rio
nel suo cupo dondolio.
(Lei non è che una fanciulla.)

(da Poesie, 1962)

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C’è tutta un’atmosfera veneziana in questa poesia di Diego Valeri: con le sue “rime chiare” alla Caproni, il poeta veneto dipinge un pittoresco scorcio di Venezia, un piccolo rio nel crepuscolo che cade lentamente dall’ultimo sole all’ombra arrossata del crepuscolo.

Una ragazza cura i gerani di un balcone, toglie le foglie secche, leva l’erba che si insinua tra le foglie carnose delle piante grasse. È lei stessa un fiore, uno splendido fiore di donna appena sbocciato e la sua bellezza sfolgora nell’ombra cupa del rio. Come una dea scesa in terra, la dea della bellezza, la dea dell’amore. Ma non è che una ragazza, ci ricorda sottovoce Valeri, che ne coglie uno scatto del volto come se qualcuno – ma non ci sono che le case e l’acqua del canale – l’avesse chiamata: la voce della poesia che risplende nei suoi occhi d’oro d’immagine presto perduta.

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Luigi Onofri, “Venezia, Rio San Barnaba”, 2008

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LA FRASE DEL GIORNO
Questo solo vediamo noi, mortali: / che divina è la sera.
DIEGO VALERI, Calle del vento




Diego Valeri (Piove di Sacco, 25 gennaio 1887 – Roma, 27 novembre 1976), poeta, traduttore e accademico italiano, fu ordinario di Letteratura Francese all’Università di Padova per oltre vent’anni, tranne nel periodo 1943-45 quando riparò in Svizzera come rifugiato politico.


domenica 18 aprile 2010

I lettori di poesie

Per scrivere una lettera commerciale occorre essere chiari, lineari, esporre i fatti essenziali e in un linguaggio quanto più possibile scarno ma preciso. Inutile gonfiarla con ridondanti barocchismi, costruire arzigogoli di periodi che si incastrano e si ingarbugliano in se stessi, abbandonarsi a un’enfatica retorica fuori luogo.

Così è la poesia: deve soltanto indicare la strada al lettore, porgergli gli elementi essenziali alla sua comprensione, un po’ come certi problemi matematici che spetta all’allievo poi risolvere e dimostrare. Prendiamo “Mattina” di Giuseppe Ungaretti: “M’illumino / d’immenso”. Tocca a noi che la leggiamo ricostruire tutto quello che ruota attorno ai versi, la giornata di sole, il cielo che si allarga in un orizzonte infinito, la luce che colpisce il volto e via di seguito fino a scoprire la sensazione che ha originato quei sintetici versi.

O ancora come quei detersivi concentrati che si vendono adesso: la poesia è quel denso liquido blu nella bustina, l’acqua che si aggiunge nel recipiente per diluirlo è l’esperienza del lettore: sono i suoi giorni passati, le sue vicissitudini, lo stato d’animo del momento, i ricordi, il carattere. Come ho già scritto in un vecchio post citando Octavio Paz: “Ogni lettore è un altro poeta; ogni testo poetico un altro testo”. Leggendo una poesia, oltre a udirne il suono e a figurarci le immagini che essa presenta, eseguiamo un esercizio poetico: siamo noi stessi poeti, adeguando a quelle immagini le nostre immagini. Se si dice “mare” è magari quello della nostra ultima villeggiatura, se si dice “amore” è la nostra amata/il nostro amato a cui pensiamo. È ancora Octavio Paz a parlare: “Il testo poetico deve provocare il lettore: costringerlo a udire, a udirsi”. Così entriamo nella poesia, indagando nel nostro profondo, e la rivestiamo con le nostre emozioni. E probabilmente, più l’emozione si avvicina alla nostra, più giudichiamo bella la poesia…

 

Alexander Denieka, “Donna che legge”, 1934

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LA FRASE DEL GIORNO
Leggere una poesia è udirla con gli occhi, udirla è vederla con gli orecchi.
OCTAVIO PAZ, Corrente alterna

sabato 17 aprile 2010

Verso il confine

 

DINO BUZZATI

I SETTE MESSAGGERI

Disegno di Dino Buzzati

Partito ad esplorare il regno di mio padre, di giorno in giorno vado allontanandomi dalla città e le notizie che mi giungono si fanno sempre più rare. Ho cominciato il viaggio poco più che trentenne e più di otto anni sono passati, esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni di ininterrotto cammino.

Credevo, alla partenza, che in poche settimane avrei facilmente raggiunto i confini del regno, invece ho continuato ad incontrare sempre nuove genti e paesi; e dovunque uomini che parlavano la mia stessa lingua, che dicevano di essere sudditi miei.

Penso talora che la bussola del mio geografo sia impazzita e che, credendo di procedere sempre verso il meridione, noi in realtà siamo forse andati girando su noi stessi, senza mai aumentare la distanza che ci separa dalla capitale; questo potrebbe spiegare il motivo per cui ancora non siamo giunti all’estrema frontiera.

Ma più sovente mi tormenta il dubbio che questo confine non esista, che il regno si estenda senza limite alcuno e che, per quanto io avanzi, mai potrò arrivare alla fine.

Mi misi in viaggio che avevo già più di trent’anni, troppo tardi forse. Gli amici, i familiari stessi, deridevano il mio progetto come inutile dispendio degli anni migliori della vita. Pochi in realtà dei miei fedeli acconsentirono a partire. Sebbene spensierato – ben più di quanto sia ora! – mi preoccupai di poter comunicare, durante il viaggio, con i miei cari, e fra i cavalieri della scorta scelsi i sette migliori, che mi servissero da messaggeri. Credevo, inconsapevole, che averne sette fosse addirittura un’esagerazione.

Con l’andar del tempo mi accorsi al contrario che erano ridicolmente pochi; e si che nessuno di essi è mai caduto malato, né è incappato nei briganti, né ha sfiancato le cavalcature. Tutti e sette mi hanno servito con una tenacia e una devozione che difficilmente riuscirò mai a ricompensare.

Per distinguerli facilmente imposi loro nomi con le iniziali alfabeticamente progressive: Alessandro, Bartolomeo, Caio, Domenico, Ettore, Federico, Gregorio. Non uso alla lontananza dalla mia casa, vi spedii il primo, Alessandro, fin dalla sera del mio secondo giorno di viaggio, quando avevamo percorso già un’ottantina di leghe.

La sera dopo, per assicurarmi la continuità delle comunicazioni, inviai il secondo, poi il terzo, poi il quarto, consecutivamente, fino all’ottava sera di viaggio, in cui partì Gregorio. Il primo non era ancora tornato.

Ci raggiunse la decima sera, mentre stavamo disponendo il campo per la notte, in una valle disabitata. Seppi da Alessandro che la sua rapidità era stata inferiore al previsto; avevo pensato che, procedendo isolato, in sella a un ottimo destriero, egli potesse percorrere, nel medesimo tempo, una distanza due volte la nostra; invece aveva potuto solamente una volta e mezza; in una giornata, mentre noi avanzavamo di quaranta leghe, lui ne divorava sessanta, ma non di più.

Così fu degli altri. Bartolomeo, partito per la città alla terza sera di viaggio, ci raggiunse alla quindicesima; Caio, partito alla quarta, alla ventesima solo fu di ritorno. Ben presto constatai che bastava moltiplicare per cinque i giorni fin lì impiegati per sapere quando il messaggero ci avrebbe ripresi.

Allontanandoci sempre più dalla capitale, I’itinerario dei messi si faceva ogni volta più lungo. Dopo cinquanta giorni di cammino, I’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri cominciò a spaziarsi sensibilmente; mentre prima me ne vedevo arrivare al campo uno ogni cinque giorni, questo intervallo divenne di venticinque; la voce della mia città diveniva in tal modo sempre più fioca; intere settimane passavano senza che io ne avessi alcuna notizia.

Trascorsi che furono sei mesi – già avevamo varcato i monti Fasani – I’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri aumentò a ben quattro mesi. Essi mi recavano oramai notizie lontane; le buste mi giungevano gualcite, talora con macchie di umido per le notti trascorse all’addiaccio da chi me le portava.

Procedemmo ancora. Invano cercavo di persuadermi che le nuvole trascorrenti sopra di me fossero uguali a quelle della mia fanciullezza, che il cielo della città lontana non fosse diverso dalla cupola azzurra che mi sovrastava, che l’aria fosse la stessa, uguale il soffio del vento, identiche le voci degli uccelli. Le nuvole, il cielo, I’aria, i venti, gli uccelli, mi apparivano in verità cose nuove e diverse; e io mi sentivo straniero.

Avanti, avanti! Vagabondi incontrati per le pianure mi dicevano che i confini non erano lontani. Io incitavo i miei uomini a non posare, spegnevo gli accenti scoraggiati che si facevano sulle loro labbra. Erano già passati quattro anni dalla mia partenza; che lunga fatica. La capitale, la mia casa, mio padre, si erano fatti stranamente remoti, quasi non ci credevo. Ben venti mesi di silenzio e di solitudine intercorrevano ora fra le successive comparse dei messaggeri. Mi portavano curiose lettere ingiallite dal tempo, e in esse trovavo nomi dimenticati, modi di dire a me insoliti, sentimenti che non riuscivo a capire.

Il mattino successivo, dopo una sola notte di riposo, mentre noi ci rimettevamo in cammino il messo ripartiva nella direzione opposta, recando alla città le lettere che da parecchio tempo io avevo apprestate.

Ma otto anni e mezzo sono trascorsi. Stasera cenavo da solo nella mia tenda quando è entrato Domenico, che riusciva ancora a sorridere benché stravolto dalla fatica. Da quasi sette anni non lo rivedevo. Per tutto questo periodo lunghissimo egli non aveva fatto che correre, attraverso praterie, boschi e deserti, cambiando chissà quante volte cavalcatura, per portarmi quel pacco di buste che finora non ho avuto voglia di aprire. Egli è già andato a dormire e ripartirà domani stesso all’alba.

Ripartirà per l’ultima volta. Sul taccuino ho calcolato che, se tutto andrà bene, io continuando il cammino come ho fatto finora e lui il suo, non potrò rivedere Domenico che fra trentaquattro anni. Io allora ne avrò settantadue. Ma comincio a sentirmi stanco ed è probabile che la morte mi coglierà prima. Così non lo potrò mai più rivedere.

Fra trentaquattro anni (prima anzi, molto prima) Domenico scorgerà inaspettatamente i fuochi del mio accampamento e si domanderà perché mai nel frattempo, io abbia fatto così poco cammino. Come stasera. il buon messaggero entrerà nella mia tenda con le lettere ingiallite dagli anni, cariche di assurde notizie di un tempo già sepolto; ma si fermerà sulla soglia, vedendomi immobile disteso sul giaciglio, due soldati ai fianchi con le torce, morto.

Eppure, va, Domenico, e non dirmi che sono crudele! Porta, il mio ultimo saluto alla città dove io sono nato. Tu sei il superstite legame con il mondo che un tempo fu anche mio. I più recenti messaggi mi hanno fatto sapere che molte cose sono cambiate, che mio padre è morto che la Corona è passata a mio fratello maggiore, che mi considerano perduto, che hanno costruito alti palazzi di pietra là dove prima erano le querce sotto cui andavo solitamente a giocare. Ma è pur sempre la mia vecchia patria.

Tu sei l’ultimo legame con loro, Domenico. Il quinto messaggero, Ettore, che mi raggiungerà, Dio volendo, fra un anno e otto mesi, non potrà ripartire perché non farebbe più in tempo a tornare. Dopo di te il silenzio, o Domenico, a meno che finalmente io non trovi i sospirati confini. Ma quanto più procedo, più vado convincendomi che non esiste frontiera.

Non esiste, io sospetto, frontiera, almeno non nel senso che noi siamo abituati a pensare. Non ci sono muraglie di separazione, né valli divisorie, né montagne che chiudano il passo. Probabilmente varcherò il limite senza accorgermene neppure, e continuerò ad andare avanti, ignaro.

Per questo io intendo che Ettore e gli altri messi dopo di lui, quando mi avranno nuovamente raggiunto, non riprendano più la via della capitale ma partano innanzi a precedermi, affinché io possa sapere in antecedenza ciò che mi attende.

Un’ansia inconsueta da qualche tempo si accende in me alla sera, e non è più rimpianto delle gioie lasciate, come accadeva nei primi tempi del viaggio; piuttosto è l’impazienza di conoscere le terre ignote a cui mi dirigo.

Vado notando – e non l’ho confidato finora a nessuno – vado notando come di giorno in giorno, man mano che avanzo verso l’improbabile mèta, nel cielo irraggi una luce insolita quale mai mi è apparsa, neppure nei sogni; e come le piante, i monti, i fiumi che attraversiamo, sembrino fatti di una essenza diversa da quella nostrana e l’aria rechi presagi che non so dire.

Una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più avanti, verso quelle montagne inesplorate che le ombre della notte stanno occultando. Ancora una volta io leverò il campo, mentre Domenico scomparirà all’orizzonte dalla parte opposta, per recare alla città lontanissima l’inutile mio messaggio.

(da I sette messaggeri, 1942)

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Questo è uno dei più bei racconti di Dino Buzzati: il viaggio che il protagonista intraprende risulta alla fine un’analogia della vita. Si cammina giorno dopo giorno, riposando notte dopo notte, e ci si allontana sempre di più dai giorni dell’infanzia e dalle nostre radici verso un confine ignoto e incerto: il tempo scorre in un’attesa continua pregna di dubbi, ansie e incertezze che spingono talvolta a ripensare il senso di quel viaggio, senza però mai interrompere la rincorsa al regno di cui si sospetta l’esistenza.

I calcoli matematici del tempo che passerà tra l’arrivo di un messaggero e quello dell’altro formano una progressione angosciante, i loro messaggi sempre più incomprensibili rendono ancora più lontana la città che simboleggia le proprie origini. Il principe si trova solo nella sua ricerca della conoscenza, perso nelle sabbie del tempo. Come l’uomo che nel suo cammino si interroga sullo scopo della propria vita..

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LA FRASE DEL GIORNO
Ho visto correre il tempo, ahimè, quanti anni e mesi e giorni, in mezzo a noi uomini, cambiandoci la faccia a poco a poco; e la sua velocità spaventosa, benché non cronometrata, presumo sia molto più alta di qualsiasi media totalizzata da qualsiasi corridore in bicicletta, in auto o in aeroplano-razzo da che mondo è mondo.
DINO BUZZATI, Dino Buzzati al Giro d’Italia




Dino Buzzati, all'anagrafe Dino Buzzati Traverso (San Pellegrino di Belluno, 16 ottobre 1906 – Milano, 28 gennaio 1972), scrittore, giornalista, pittore, drammaturgo e poeta italiano. Fu cronista e redattore del Corriere della Sera. Autore di romanzi e racconti surreali e realistico-magici, è celebre per Il deserto dei Tartari.


venerdì 16 aprile 2010

La forza persistente del ricordo


LUCÍA RIVADENEYRA

DICONO

Dicono che un buon bagno
cancella tutto.

Io è da anni che mi bagno
---------------- mi strofino
---------------- mi arrosso
e non ho potuto strapparmi
---------------- le tue mani.



La forza persistente del ricordo è la protagonista di questa breve poesia della messicana Lucía Rivadeneyra, cinquantatreenne giornalista e docente all’Università Autonoma del Messico. Il ricordo che diventa presenza fisica dell’altro, memoria della sua assenza che vive sotto pelle, che circola ancora nel sangue, tanto che in un’altra poesia la Rivadeneyra arriva a dire: “Oggi più che mai lecco il tuo ricordo / come se ti tenessi tra le labbra. / (…) Palpo il mio disabitato corpo / stringo dolorosa / le mie zone erogene”. Un dolore però cercato, chiamato nel corso del tempo (“è da anni”), e inevitabilmente ritrovato nel proprio essere, tanto da essere alla fine piacevole come un’abitudine.

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Dipinto di Lee Price

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LA FRASE DEL GIORNO
Fa tanto bene a ripensù a l’amore / ne li momenti de malinconia. / Provi una specie di nun so che sia, / come un piacere de sentì dolore.
TRILUSSA, Momenti scemi




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Lucía Rivadeneyra (Morelia, 26 agosto 1957), poetessa messicana. Insegnante di giornalismo e letteratura all’UNAM, ha pubblicato numerose raccolte dove protagonisti sono l’amore appassionato, l’erotismo e la solitudine.



giovedì 15 aprile 2010

Dove sono i giorni di ieri?

“Dov’è la vita che abbiamo persa vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo persa nel sapere? Dov’è il sapere che abbiamo perso mettendo insieme nozioni?”

Belle domande, queste di Thomas Stearns Eliot. Dove sono i giorni di ieri? Che ne è stato della scampagnata con la tovaglia a quadri, il cestino da picnic posato sopra, la bottiglia di vino bianco e l’anguria messi in fresco nell’acqua del torrente? Che ne è stato dei pomeriggi di spiaggia trascorsi a raccontarsi, a giocare a bocce, a riempire le caselle bianche della Settimana Enigmistica? Che ne è stato della luna di burro che si sdoppiava nel mare mentre la nostra ombra diventava tutt’uno con quella di un’altra persona? Che ne è stato dell’amore che abbiamo coltivato con tanta passione, che abbiamo fatto sbocciare e fiorire? E dei giorni di studio e di lavoro, messi in fila come un lunghissimo rosario?
E ancora: che ne è stato di ciò che abbiamo perso, delle occasioni fuggite, delle strade non prese? Che cosa sarebbe successo se quel giorno avessimo detto sì oppure no, se avessimo temporeggiato, se fossimo andati in un posto invece che in un altro, se avessimo incontrato una persona invece di un’altra?
E dov’è l’ingenuità dell’infanzia? Che ne è stato di quella dolce ignoranza che aveva in sé la sua saggezza? Eravamo sacchi vuoti da riempire ma avevamo già un’anima, una nostra capacità di distinguere bene e male, una morale, un’etica. In quei sacchi abbiamo messo molta farina, e ora non sappiamo più che cosa c’era sul fondo.
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Fotografia © Sergiu Popovici

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LA FRASE DEL GIORNO
Pensa che questo dì mai non raggiorna! 
DANTE ALIGHIERI, Purgatorio, XII, 84

mercoledì 14 aprile 2010

L’amore di Attila József


ATTILA JÓZSEF

TI BENEDICO CON TRISTEZZA, CON ALLEGRIA


Ti benedico con tristezza, con allegria
temo per te con tutto quello che ho di amabile
ti custodisco con le palme che implorano
coi campi di grano con le nuvole.

Il tamtam dei tuoi piedi è una musica fatale
il muro che ti ho eretto contro è un crollo eterno
oscillo sull'orlo dell'abisso
nel tuo respiro io mi avviluppo.

Che tu m'ami o non m'ami fa lo stesso
che ti compenetri cuore a cuore,
ti vedo ti sento e ti canto
con te rispondo a Dio.

All'alba il bosco si sgranchisce
mille braccia aumentano si distendono
staccano la luce del cielo
per adagiarla sul cuore innamorato.


(da "Non ho padre né madre", 1929 - trad. Edith Bruck)

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Attila József era un sognatore. E per questo credeva che la poesia fosse un’arma. La usò in politica finendo con l’essere denunciato per vilipendio alla religione e con l’essere bollato come nemico della patria, l’Ungheria. Lui, rivoluzionario, fu espulso dal partito comunista. La usò anche in amore, finendo come una falena intorno alla fiamma: Attila si uccise nel 1937 a 32 anni, dopo aver sofferto di disturbi nervosi sorti dopo che la sua amata gli venne strappata per la differenza di classe sociale.

Con la lucidità intellettuale che lo caratterizza dipinge una poesia d’amore dove la donna amata diventa centro dell’universo e suscita un desiderio di protezione – un po’ come nella bellissima canzone “La cura” di Franco Battiato. E non è neppure necessario che lei lo ricambi: è un sentimento unilaterale e violento quello che il poeta prova, un amore universale che si compenetra nel puro essere della natura.

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Fotografia © Brahmanatara

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LA FRASE DEL GIORNO
Amami come se tu / lo volessi / come se il mio cuore / fosse il tuo cuore.
ATTILA JÓZSEF, No ho padre né madre




Attila József (Budapest, 11 aprile, 1915 - Balatonszárszó, 3 dicembre 1937), poeta ungherese,  incompresa voce del proletariato. Studiò lettere e filosofia a Szeged, Parigi e Vienna; fu redattore della rivista letteraria Szép Szó Il tono della sua lirica è dato dalle amare esperienze dell'infanzia e della giovinezza e dalla sua adesione al socialismo.


martedì 13 aprile 2010

Del passato

Non è difficile definire il passato: altro non è che la nostra vita, la somma di giorni che dalla nascita al momento presente si sono succeduti con i loro errori e i loro trionfi, con gli amori e le delusioni, i sogni e le illusioni, le bellezze e le bruttezze. Perché “il passato è la sostanza di cui è fatto il tempo”, come scrive Jorge Luis Borges in un racconto di “Aleph”, “L’attesa”.
L’americano Wendell Berry rileva che “Il passato è quello che ci definisce. Possiamo cercare a torto o a ragione di sfuggirgli o di sfuggire alle brutture che contiene, ma ci riusciremo solo se gli aggiungeremo qualcosa di migliore”. Un serpente che si morde la coda: per migliorare il nostro passato dobbiamo migliorare il nostro presente, comportandoci in modo da migliorare così anche il futuro. Non è facile, e lo conferma un famoso passo del “Grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald: “Così procediamo a fatica, barche contro corrente, risospinti senza sosta nel passato”. Perché – è sempre Francis Scott Fitzgerald (“L’età del jazz e altri scritti”) - “Ritrovare il passato e scoprirlo inadeguato al presente è ancora più triste di quel che non sia il fatto che esso vi eluda e rimanga per sempre una concezione armoniosa della memoria”.
È anche l’altro lato della medaglia: il suo fascino consiste nell’essere irrimediabilmente perduto e immodificabile. La sua certezza, i suoi confini ben delineati, i paletti piantati e irremovibili lo fanno apparire come una specie di età dell’oro (chi dice di no vada a guardarsi un paio di album di fotografie che tiene nel cassetto). “Là dove noi non siamo, si sta bene. Nel passato noi non ci siamo più, ed esso ci appare bellissimo” constata amaramente il celebre drammaturgo russo Anton Cechov. Riecheggia Marcel Proust: “I veri paradisi sono i paradisi che si sono perduti” scrive nel “Tempo ritrovato”. E il latino Orazio nella sua “Ars poetica” si definiva “Laudator temporis acti”, lodatore del passato. E ancora Hermann Hesse nella poesia “Laguna”: “Anch'io sono figlio di un tempo passato, l'oggi mi è estraneo, né odioso né adorato”. E, come si è detto, è facile capire perché: “Solo ciò che è trascorso o mutato o scomparso ci rivela il suo volto reale” nota Cesare Pavese in “Terra d’esilio”, uno dei suoi racconti.
C’è chi invece si ancora nel presente, come il poeta latino Marziale. In questo epigramma (VIII, 69) “si tocca” e rivendica tutta la bellezza del presente: “Ammiri solo gli antichi, Vacerra / e lodi i poeti solo se sono già morti. / Scusami, Vacerra, ma non val la pena / che io, per piacerti, muoia”.
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Fotografia dal web
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LA FRASE DEL GIORNO
Ciò che abbiamo vissuto non si può annullare, ciò che è stato è indistruttibile. 
GIORGIO SCERBANENCO, La sabbia non ricorda

lunedì 12 aprile 2010

Il vento e l’arboscello


UMBERTO SABA

L’ARBOSCELLO

Oggi il tempo è di pioggia.
Sembra il giorno una sera,
sembra la primavera
un autunno, ed un gran vento devasta
l'arboscello che sta - e non pare - saldo;
par tra le piante un giovanetto alto
troppo per la sua troppa verde età.
Tu lo guardi. Hai pietà
forse di tutti quei candidi fiori
che la bora gli toglie; e sono frutta,
sono dolci conserve
per l'inverno quei fiori che tra l'erbe
cadono. E se ne duole la tua vasta
maternità.

(da Il canzoniere, 1951)

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Un giorno di primavera come ne capitano: pioggia, vento, freddo. E ci scappa di dire che sembra novembre. Lì nel giardino una giovane pianta da frutta - un susino, un albicocco, un pero – si piega al forte vento e sembra spezzarsi da un momento all’altro, rimanendo però sempre in piedi. Al poeta triestino Umberto Saba sembra un adolescente alto e magro, troppo alto e troppo magro per la sua età, colpito da grandi sventure: quei fiori che la tempesta gli strappa sono le speranze che se ne vanno, le occasioni che fuggono e che non si concretizzeranno più. La moglie di Saba invece, che con il poeta guarda la scena dalla finestra, si dispiace, con il senso pratico e materno delle donne, per quei fiori perduti che non diventeranno frutti e poi marmellate: partecipa di quell’inespresso dolore con pietà tutta femminile.

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John Shanabrook, "Alberi nella tempesta"

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LA FRASE DEL GIORNO
C’era, mal visto nel luogo, un fanciullo. / Le sue speranze assieme alle faville / del focolaio si alzavano. Alcuna / guarda! - è rimasta.
UMBERTO SABA, Il Canzoniere




Umberto Saba, pseudonimo di Umberto Poli (Trieste, 9 marzo 1883 – Gorizia, 25 agosto 1957), poeta italiano tra i massimi del ‘900. Di famiglia ebraica, fu avviato agli studî commerciali, e fu per lunghi anni direttore e proprietario di una libreria antiquaria a Trieste. La sua poesia, quasi intimo diario e confessione, indaga le cose ultime, la donna, l’amore, il senso atavico del dolore. La sua opera è raccolta nel Canzoniere.