giovedì 31 maggio 2012

Ode alla tristezza

 

VICENTE GAOS

ALLA TRISTEZZA

Se non fosse per te…
se non fosse per te, che ogni sera
mi fai tuo quando il sole declina,
quando ogni cosa è così bella perché è triste,
e affondi ancor più le mie radici
di uomo nella terra… di uomo immensamente
solo di fronte al ponente nel quale Dio fugge.
Che sarebbe di tutto? Che sarebbe
di noi? Mai,
mai avremmo visto
il segreto mistero delle cose.

Oh, tu, tristezza, madre
di tutta la bellezza che ha creato
l’uomo nel dolore che dà la tua mano
con il suo dolce castigo…
Non ti allontanare da me, vieni ogni giorno
a farmi triste, a farmi uomo, figlio tuo…
Fammi visita.

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Lo so: tutti miriamo alla felicità, crediamo di trovare – anche egoisticamente - in essa lo scopo della nostra vita. Ma la vita è fatta di contrasti, e attraverso la tristezza – contraltare della felicità – possiamo rendercene conto: non esiste in noi la perfezione, non siamo impeccabili né invulnerabili o impermeabili alle emozioni. La tristezza ci rende umani, come dice il poeta spagnolo Vicente Gaos: diventa pietra di paragone che ci consente di valutare meglio le cose, di penetrare all’interno del mistero, di coglierne l’infinita poesia.

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EDWARD HOPPER, “UFFICIO IN UNA PICCOLA CITTÀ”

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LA FRASE DEL GIORNO
La vita non è triste. Ha ore tristi.
ROMAIN ROLLAND, Jean-Christophe




Vicente Gaos González-Pola (Valencia, 27 marzo 1919 – 17 ottobre 1980),  poeta, saggista, critico letterario, traduttore e professore spagnolo appartenente alla Generazione del '36  La sua poesia indaga  l'amore, il desiderio, la bellezza e l'angoscia di vivere, il dialogo instaurato con Dio. 


mercoledì 30 maggio 2012

Pierre Menard e altro

 

HANS MAGNUS ENZENSBERGER

OPZIONI PER UN POETA

Con parole diverse
dire la stessa cosa,
sempre la stessa.
Sempre con le stesse parole
dire una cosa del tutto diversa
o la stessa in modo diverso.
Molte cose non dirle,
o dire molto
con parole che non dicono niente.
Oppure tacere in modo eloquente.

(Traduzione di Donata Berra)

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“Chi insinua che Menard dedicò la sua vita a scrivere un Chisciotte contemporaneo, calunnia la sua chiara memoria. Non volle comporre un altro Chisciotte – ciò che è facile – ma il Chisciotte. Inutile  specificare che non pensò mai a una trascrizione meccanica dell’originale; il suo proposito non era di copiarlo. La sua ambizione mirabile era di produrre alcune pagine che coincidessero – parola per parola e riga per riga – con quelle di Miguel de Cervantes”: sono sempre rimasto affascinato da Pierre Menard, autore del Chisciotte, racconto di Jorge Luis Borges inserito in Finzioni, un uomo che riscrive parola per parola il capolavoro di un altro credendo di modificarlo e invece ottenendolo esattamente identico. Il fatto è che ho sempre sognato di riscrivere l’identica poesia a distanza di anni senza neppure saperlo. E quando vado a rileggere miei vecchi versi talvolta salto sulla sedia, riconoscendo cose che scrivo adesso. Tutto questo preambolo per dire ciò che la poesia dello scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger (Kaufbeuren, 1929) mi ha evocato. Non c’è solo questo, naturalmente: perché i poeti dicono con parole inusuali oppure fuori contesto o ancora dicono non dicendo, ovvero con il silenzio; o ancora dicono cose diverse con parole identiche destreggiandosi tra le tecniche e gli artifici letterari.

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CALLIGRAMMA DI GUILLAUME APOLLINAIRE, 1918

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LA FRASE DEL GIORNO
I poeti sono i legislatori misconosciuti del mondo.
PERCY BYSSHE SHELLEY




Hans Magnus Enzensberger (Kaufbeuren, 11 novembre 1929), scrittore, poeta, traduttore ed editore tedesco. La sua poesia, con espressione volutamente antipoetica e provocatoria, non vede un mezzo di salvezza per l'uomo e si presenta come denuncia spietata di tutte le storture e debolezze della società.


martedì 29 maggio 2012

Sul filobus

 

ELIO PAGLIARANI

RIPENSAVO LA GIOIA, IL TUO ALIMENTO

Ripensavo la gioia, il tuo alimento,
ti guardavo i capelli, il viso chiuso
e intento sul giornale dove ho finto
anch’io di leggere, rimanendo escluso
a te seduto accanto sul tuo filobus.

Ho le prove – potrei gridarlo ai giudici –
che non mi hai visto porterò le prove
fino che campo, che la capacità del mio pensiero
nemmeno con la forza dello sguardo
di un estraneo passeggero sopra il filobus
sa arrivare a sfiorarti.

(da Inventario privato, Veronelli, 1959)

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Una Milano d’epoca, uno di quei filobus scomparsi che attraversa le vie cittadine in un’atmosfera vagamente crepuscolare, come i toni di questa poesia di Elio Pagliarani scritta con il suo usuale stile pieno di parole consuete. Torna quell’incomunicabilità amorosa e urbana già incontrata in Sarà ora di chiudere, amore e in Che ci portiamo addosso il nostro peso, entrambe tratte da Inventario privato. L’amore che esclude, che rende estranei, nel grande tessuto di una moderna civiltà industriale.

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FOTOGRAFIA © PXHERE

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LA FRASE DEL GIORNO
È forse il fischio e nebbia o il disperato / stridere di ferrame o il tuo cuore sorpreso, spaventato / il cuore impreparato, per esempio, a due mani / che piombano sul petto
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ELIO PAGLIARANI, La ragazza Carla e altre poesie




Elio Pagliarani (Viserba, 25 maggio 1927 – Roma, 8 marzo 2012), poeta e critico teatrale italiano. Tra i principali esponenti della neoavanguardia, fu uno dei protagonisti del Gruppo '63, all'interno del quale occupò tuttavia una posizione autonoma e personale. La sua poesia nasce dalla cronaca e dalla vita quotidiana.


lunedì 28 maggio 2012

Alle cinque del mattino


BILLY COLLINS

AUBADE

Se vivessi nella casa di fronte a me
e se fossi seduto al buio
sul bordo del letto
alle cinque del mattino,

mi potrei chiedere che cosa ci fa
la luce accesa nel mio studio a quest’ora,
eppure eccomi alla mia scrivania
nel mio studio a chiedermi la stessa identica cosa.

So che non dovevo alzarmi così presto
per aprire con un coltellino
i pacchi di giornali all’edicola
come potrebbe pensare l’uomo della casa di fronte.

È ovvio che non sono un agricoltore o un lattaio.
E non sono l’uomo della casa di fronte
che siede al buio perché sonno
è sua madre e lui è uno dei suoi tanti orfani.

Forse sono sveglio solo per ascoltare
il tenue stridulo tintinnio,
del tungsteno nell’unica lampadina
che ha lo stesso suono del fruscio degli alberi.

O il mio compito è solo quello di stare seduto immobile
come il bicchiere d’acqua sul comodino
dell’uomo della casa di fronte,
immobile con la fotografia di mia moglie in cornice?

Ma ecco il primo uccello che consegna il suo canto,
ed ecco il motivo del mio essere in piedi:
per catturare la canzone di tre note di quell’uccello
e aspettare ora assieme a lui una risposta.

(da Balistica, Fazi, 2011)

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C’è poesia anche nel minimalismo, nel racconto di questo uomo sveglio all’alba che con un dire piano come le piccole cose di cui narra, elucubrando pensieri come matasse da dipanare, ci porta lungo la strada che vuole farci percorrere per arrivare esattamente al punto esatto in cui la poesia divampa, ovvero al momento in cui l’emozione si dispiega e innalza al vento le sue vele. L’autore di questi versi è il poeta statunitense Billy Collins, recentemente insignito del Premio Camaiore per la poesia internazionale 2012, proprio per Balistica, incensato dal The New Yorker come “poeta ricco, ironico, e di grazia augustea”. Una nota tecnica sul titolo: l’Aubade è un componimento poetico o musicale analogo alla mattinata italiana, che riguarda il sorgere del sole..

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EDWARD HOPPER, “DAWN IN PENNSYLVANIA”

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LA FRASE DEL GIORNO
Non si può toccare l'alba se non si sono percorsi i sentieri della notte.
KAHLIL GIBRAN, Sabbia e spuma




William Collins, detto Billy (New York, 22 marzo 1941), è un poeta statunitense. Dopo aver insegnato letteratura inglese al Lehman College nel Bronx per oltre 50 anni, ora è in pensione. Le sue poesie raccontano con ironia la vita dell’America borghese e suburbana.


domenica 27 maggio 2012

L’anima e il geranio


CARMEN CRISTINA WOLF

L’ANIMA


Dimmi, geranio del giardino
Sai dove se n’è andata l’anima?
Il corpo assente
e le mie mani non riescono a ricamare i suoi ricordi
Non so dove tu sia, anima mia
spero solo che tu vada di buon passo
Non parlare con l’usignolo
perderesti il volo nell’ombra
Non è ancora tempo
di incontrare l’albero dell’inizio.


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“Siamo la vita che comincia, sempre”: è questa la filosofia della saggista e poetessa venezuelana Carmen Cristina Wolf. La poesia dunque è tutta nel vivere, nel tessere giorno per giorno il filo dell’esistenza, nel lasciarsi sorprendere dal mistero: soltanto chi è capace di sentire l’anima, di meravigliarsi, può essere poeta. Anche chi conversa con i gerani, certo, e pone loro domande esistenziali: il bello è che ai poeti i gerani rispondono…

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MARCIA BALDWIN, “RED GERANIUM NO. 1”
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LA FRASE DEL GIORNO

Rinuncio all’orpello. Preferisco la vita semplice, sottile, insondabile.
CARMEN CRISTINA WOLF, La fiamma incessante




Carmen Cristina Wolf (Caracas, 1953), poetessa, saggista, redattrice e correttrice letteraria venezuelana. Avvocato, si dedica alla correzione dello stile, all'organizzazione di libri e tiene laboratori di scrittura creativa, comunicazione e  corsi per parlare in pubblico.


sabato 26 maggio 2012

Camera segreta


ALBERTO BEVILACQUA

…SI TRATTA DI APRIRLA QUESTA PORTA

… si tratta di aprirla questa porta
di entrarci in questa camera sigillata da tempo
senza chiedersi
chi fu a chiuderla, e perché è accaduto
… era talmente affollata di musica, di voci
aveva un suo così definito tempo
ma il tempo si è frantumato in tanti tempi
minori, sparsi,
e i suoni
i suoni si sono persi ciascuno per la propria
strada, viottoli o grandi viali,
sottoporre a un processo cronologico
suoni, tempi,
silenzi, sottosilenzi,
le lontananze buie e le luminose
… il pianoforte
ad esempio, anzi l’esempio perfetto,
è bianco di polvere:
si potrebbe incidere le note con la punta di un dito
… dare aria:
lasciare che l’aria si dia da sola
che l’ordine stesso e il senso delle cose
si ricompongano per propria convinzione,
cominciare da un inizio
lasciando che sia l’inizio a rivelarsi
… non c’è volontà che valga
per chi vuole rendere
di nuovo praticabile un luogo della sua anima.

(da La camera segreta, Einaudi, 2011)

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“La «camera segreta», da riordinare o sgomberare, è il luogo intimo dell'autore, l'archivio privilegiato della sua vita, ma è anche l'osservatorio, o cosmico grembo, dove si possono cogliere gli echi delle vite umane. Questo intreccio di biografico e di metafisico, ossessione del ritorno e di un altrove sconosciuto, tocca l'essenza più segreta, privata, del poeta ed esprime, per un sottile gioco di specchi, una dimensione universale”. Così Einaudi presenta l’ultima raccolta edita dal poeta e scrittore Alberto Bevilacqua. Quello proposto è solo il prologo di un viaggio a ritroso nei segreti e nei ricordi che si snodano via via per le 232 pagine del volumetto, spesso in forma breve ma con l’intensità di cui è capace ad esempio la poesia giapponese: un viaggio alla ricerca dell’origine, al seguito degli affetti perduti. Perché si ha un bel dire: vivi nel presente, pensa al futuro. In realtà noi siamo il risultato del passato.

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EDWARD HOPPER, “ROOMS FOR TOURISTS”

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LA FRASE DEL GIORNO
Come l’odore delle foglie bagnate / dopo che la pioggia è un pezzo che non cade / …accadimi così, per caso, / mia vita che da sempre mi possiedi
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ALBERTO BEVILACQUA, La camera segreta




Alberto Bevilacqua (Parma, 27 giugno 1934), scrittore e regista italiano, celebre per i romanzi “La Califfa”, “Questa specie d’amore” e “Il curioso delle donne”, è stato anche sceneggiatore, giornalista e poeta. Sensualità, nostalgia e disillusione sono tra i suoi temi prediletti.


venerdì 25 maggio 2012

Un piccolo grazioso miracolo


JENS AUGUST SCHADE

NEL CAFFÈ


Una bella canzone
un piccolo grazioso miracolo,
distilla il fonografo
mentre sto in silenzio.
E con stupore di tutti
abbandono la sedia sotto di me
e mi trovo seduto nel vuoto.
Davanti a me c’è una ragazza
dai denti brutti
e dallo sguardo sfuggente.
Tace.
- Entrambi sappiamo
quello che l’uno sente
all’interno dell’altro
e con forza di leoni
si baciano le nostre anime.
Lei si libra nell’aria
io pure,
sospesi sui tavolini
diventiamo amici.
E accompagnati da fragore e battimani,
grazie al miracolo della canzone
ci intrecciamo
e usciamo dal caffè
volteggiando in caroselli.



Jens August Schade, gloria poetica del Novecento danese, era un surrealista rivoluzionario. Rivoluzionario in questo caso non tanto, ma surrealista sicuramente è questa scena immaginata dal poeta: un disco che suona in un caffè, due sconosciuti che vengono rapiti dalla bellezza della canzone e si lasciano andare, levitano come figure di un quadro di Chagall, si baciano sopra i tavolini pur restando perfettamente seduti in silenzio. Un inno alla fantasia, all’immaginazione, alla bellezza, alla grandezza dell’amore.

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MARC CHAGALL, “AU-DESSUS DE LA VILLE”
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LA FRASE DEL GIORNO

Il vero Amore non è altro che un certo sforzo di volare a la divina bellezza, desto in noi dallo aspetto della corporale bellezza.
MARSILIO FICINO, Sopra lo Amore





Jens August Schade (Skive, 10 gennaio 1903 - Copenaghen, 11 novembre 1978), poeta danese. Il suo debutto fu la raccolta di poesie del 1926, "Il violino vivente". Si riferiva a se stesso nella sua poesia come "il brillante poeta". I suoi temi indagavano l'interconnessione tra l'erotico e le forze del cosmo. 



giovedì 24 maggio 2012

Inciampando in un fiore perduto

 

JAROSLAV SEIFERT

SE DITE CHE I VERSI SONO ANCHE CANTO

Se dite che i versi sono anche canto
- e si dice -,
tutta la vita ho cantato.
E ho camminato con quelli che nulla avevano,
né luogo né fuoco.
Ero uno di loro.

Ne ho cantato il dolore,
      la fede, la speranza,
con loro ho vissuto
ciò che vissero. Angoscia,
debolezza, paura e coraggio,
e la tristezza della miseria.
E il loro sangue, quando scorreva,
spruzzava me.

Ne è scorso sempre abbastanza
in questo paese di dolci fiumi, erbe, farfalle,
e donne appassionate.
Anche le donne ho cantato.
Accecato dall'amore,
      nella vita ho brancolato,
inciampando in un fiore perduto
o gradino d'antica cattedrale.

(da La colata delle campane, 1967 – Traduzione di Sergio Corduas)

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“Però so bene / che un poeta deve sempre dire più / di ciò che sta nascosto nel rombo delle parole. / Ed è la poesia”. Eccola, la poetica di Jaroslav Seifert, poeta ceco, Premio Nobel 1984. I versi che ho proposto sono una summa della sua vita, risalgono al 1967, alla maturità che vira ormai in vecchiaia, sono il curriculum del poeta, che passa in rassegna tanti anni di poesia, di canto al fianco degli umili e degli oppressi. Ed è bellissimo l’atto d’amore finale per Praga, la città cantata e amata come una donna.

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FOTOGRAFIA © MAUROONLINE

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LA FRASE DEL GIORNO
L'atteggiamento lirico non desidera convincere gli altri. Offre loro soltanto l'opportunità di partecipare a ciò che sente e sperimenta il poeta. Niente di più e niente di meno.
JAROSLAV SEIFERT, Lettura per il Premio Nobel




Jaroslav Seifert (Praga, 23 settembre 1901 – 10 gennaio 1986), poeta e giornalista ceco. Nel 1984 fu insignito del Premio Nobel per la Letteratura, “per la sua opera poetica che, dotata di grande freschezza, di sensualità e di una ricca immaginazione, fornisce un’immagine liberatoria dello spirito indomabile e della versatilità umana”.

mercoledì 23 maggio 2012

Per Giovanni Falcone

 

ALDA MERINI

PER GIOVANNI FALCONE

La mafia sbanda,
la mafia scolora
la mafia scommette,
la mafia giura
che l'esistenza non esiste,
che la cultura non c'è,
che l'uomo non è amico dell'uomo.

La mafia è il cavallo nero
dell'apocalisse che porta in sella
un relitto mortale,
la mafia accusa i suoi morti.

La mafia li commemora
con ciclopici funerali:
così è stato per te, Giovanni,
trasportato a braccia da quelli
che ti avevano ucciso
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(da Ipotenusa d'amore, La Vita Felice, 1994)

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Sembravano lontani quegli Anni ‘90 delle stragi mafiose, degli assassini di Falcone e  Borsellino, dell’attentato all’Accademia dei Georgofili. Invece sabato scorso il vile attacco alla scuola di Brindisi dedicata a Francesca Laura Morvillo, la moglie di Falcone, ci ha riportati tutti indietro di vent’anni, come il rigurgito terroristico ci fa ripensare con orrore agli Anni ‘70. Questo post, in occasione dei vent’anni dalla strage di Capaci del 23 maggio 1992, grazie alla poesia di Alda Merini vuole essere un omaggio a Giovanni Falcone, a Francesca Laura Morvillo, a Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo, gli uomini della scorta che persero la vita quando la mafia fece esplodere 500 kg di tritolo. Voglio raccontare dello sgomento di quando appresi la notizia, un tardo pomeriggio dolcissimo di maggio, e si poteva sentire il “paese devastato dal dolore” come aveva cantato l’anno precedente Franco Battiato in Povera patria.

E a sottolineare le parole di Giovanni Falcone “la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine” voglio ricordare il coraggio della giovane vedova di Vito Schifani, Rosaria, e il suo discorso letto ai funerali: “Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare... Ma loro non cambiano... loro non vogliono cambiare”. Non cambieranno, ma il coraggio ha sempre la meglio sulla viltà. Sempre.

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LA FRASE DEL GIORNO
Possiamo sempre fare qualcosa: massima che andrebbe scolpita sullo scranno di ogni magistrato e di ogni poliziotto.
GIOVANNI FALCONE, Cose di Cosa Nostra




Alda Giuseppina Angela Merini (Milano, 21 marzo 1931 - 1º novembre 2009),  poetessa, aforista e scrittrice italiana. Vide pubblicate le prime poesie a diciannove anni. L’amore agitato con Giorgio Manganelli riportò alla luce i disagi psichici: dal 1965 al 1972 fu internata in ospedale psichiatrico. Dimessa, visse nella sua casa sui Navigli, spesso in stato di emarginazione, circondandosi di artisti.



martedì 22 maggio 2012

La colpa del poeta


MATILDE ALBA SWANN

IO NON HO COLPA

Io non ho colpa
di amare con tenacia l’ombra delle cose che furono,
di sentire l’impazienza del mistero che gira intorno,
di vibrare alla certezza della luce che sfolgora.
Non ho colpa di restare sola
nell’ora del brindisi, dell’alloro, della spiga,
rifugiandomi nell’infanzia, nel ritorno da scuola,
nel riemergere della tenera canzone addormentata.
Non ho colpa di unirmi alla notte,
di abbandonarmi ai tetti in spasimi di pioggia,
di morire di vergogna con chi si umilia,
di bruciare della febbre mortale dei malati,
di dolermi nelle foglie calpestate d’autunno,
di gemere nei rami e di ruggire con il vento.
Io non ho colpa di essere una particella
del corpo della pena,
del coraggio, del sogno, dell’amore per l’eterna
tristezza degli uomini.
Ho la colpa soltanto
di riunire nei miei versi il dolore che trasudano
queste cose amare che rimordono e accusano,
di questo ho colpa...!

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Il coraggio di condividere l’umano sentire, di partecipare delle sofferenze altrui e cioè di “compatire”, secondo l’etimologia latina del termine. La forza di essere in consonanza con la natura, senza vergogna di escludersi dalle convenienze sociali per rimanere soli con se stessi e con i propri ricordi. Questo rivendica la poetessa argentina Matilde Alba Swann in questa sua dichiarazione poetica. E non è certo un puro esercizio di stile: lo conferma la strenua difesa dei diritti del suo popolo portata avanti in qualità di avvocato, giornalista e scrittrice. L’unica colpa è quella di comunicare tutte queste cose, è la poesia, il mezzo orgogliosamente utilizzato per fare proprio il celebre motto di Publio Terenzio Afro: “Homo sum: nihil humani mihi alienum puto”, sono un essere umano, niente di ciò che è dell’uomo ritengo a me estraneo.

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DISEGNO © KIND OVER MATTER

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LA FRASE DEL GIORNO
Soffrire insegna a vedere e a comprendere. Soffrire insegna ad alleviare, a compatire, a consolare quelli che soffrono
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MARTHE ROBIN




Matilde Alba Swann, pseudonimo di Matilde Kirilovsky de Creimer (Berisso, 24 febbraio 1912 – La Plata, 13 settembre 2000), scrittrice, poetessa, giornalista e avvocato argentina. Fu corrispondente di guerra per il quotidiano El Día durante la guerra delle Falkland.


lunedì 21 maggio 2012

Una stucchevole estranea


KOSTANTINOS KAVAFIS

PER QUANTO STA IN TE


E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole in un viavai frenetico.

Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea.


(da Settantacinque poesie, Einaudi, 1968 - Traduzione di Nelo Risi e Margherita Dalmàti)
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Nelo Risi, il poeta che ha tradotto con Margherita Dalmàti questa poesia, scrive nella prefazione alla raccolta che la contiene: “Kavafis è cittadino greco ma scrive da un osservatorio periferico come Alessandria: un ghetto immenso e brulicante, odoroso di spezie, ricco e miserabile, molto corrotto; un porto che si affaccia sullo stesso mare di Creta, di Smirne, di Salonicco e di Patrasso: Alessandria, nel primo terzo di questo secolo, non è certo una capitale dello spirito, e Atene è lontana come Roma o Parigi. Ma se guardiamo nel tempo, l'Alessandria di Kavafis è molto vicina a Bisanzio, a una grecità sentita esoticamente, a cavallo tra le religioni antiche e la fede cristiana, tra un'etica stoica e una filosofia della vita che sono il frutto di una sensibilità modernissima”. Ecco allora da dove derivano i principi che fanno trarre a Kostantinos Kavafis questa lezione di vita, questo consiglio a essere se stessi come si è o come si è diventati, accettandosi con dignità.

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PAUL SEURAT, “PORTRAIT DE FÉLIX FÉNÉON
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LA FRASE DEL GIORNO

La vita è la farsa che dobbiamo recitare tutti.
ARTHUR RIMBAUD, Una stagione all’inferno




Konstantinos Petrou Kavafis, (Alessandria d'Egitto, 29 aprile 1863 – 29 aprile 1933), poeta e giornalista greco. Pubblicò 154 poesie, spesso ispirate all'antichità ellenistica, romana e bizantina, percorre, mirando al sublime, i vari gradi di un'esperienza estetica congiunta alla pratica dell'amore omosessuale.


domenica 20 maggio 2012

Da una donna all’altra


MIGUEL RASCH ISLA

AMORE ERRANTE

     La donna se ben fa come la luna
     è sempre quella sia bruna sia bianca.
                                        D' Annunzio
Così disse una notte il viaggiatore:
vengo da varie regioni d’amore;
tante anime varcai, a tutte straniero;
da tutte uscii con fatica e dolore.

Vidi negli occhi più chiari gli sguardi insidiosi,
sulle bocche più fresche incontrai lo stesso sapore;
non ci sono braccia capaci di imprigionarmi,
né carni che possano tremare d’un nuovo fremito.

Sono passato da una donna all’altra e in ognuna
ho lasciato immolata una parte della mia vita…
Ora non ho nulla da dare e nulla spero che mi diano.

Solo con gli amori che ho sognato rimango,
e con il tuo, morte! sebbene abbia il terrore
che le tue labbra infine distillino solo noia.


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C’è D’Annunzio in epigrafe, ed è una chiave di lettura che ci fornisce l’autore stesso di questi versi, il poeta e saggista colombiano Miguel Rasch Isla. Ma se scaviamo più a fondo sotto questo Don Giovanni che passa da una donna all’altra sempre più insoddisfatto ecco apparire il Gozzano che smania per l’impossibilità dell’amore: “Ove sei /o sola che, forse, potrei amare, amare d'amore?” vaneggiando su una fotografia di Carlotta, l’amica di nonna Speranza. E ancora l’Hermann Hesse di Alla malinconia: “Io figlio tuo infedele ti obliai / in braccia amanti, nell'onda del fragore. / Ma tu mi accompagnavi silenziosa”.
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JACK VETTRIANO, “NOTTE IN CITTÀ”
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LA FRASE DEL GIORNO
L'amore è inventare l'altro con tutta la nostra fantasia e con tutte le nostre forze, senza cedere di un millimetro alla realtà.
GIANRICO CAROFIGLIO, Il silenzio dell’onda




Miguel Rasch Isla (Barranquilla, 9 febbraio 1887 – Bogotá, 6 ottobre 1953). poeta colombiano. La sua prima opera poetica è pubblicata nel libro A fior dell'anima nel 1911, cui seguono Da leggere nel pomeriggio (1921), Quando cadono le foglie (1923), La visione, una poesia in duecento terzine (1925), La mela dell'Eden (1926) e Sonetti (1940).



sabato 19 maggio 2012

Sorrisi, sorrisi, sorrisi


EVGENIJ EVTUSENKO

SORRISI

Erano tanti un tempo i tuoi sorrisi:
sorpresi, maliziosi, festosi sorrisi,
tristi a volte un tantino, ma tuttavia, sorrisi.
Non uno è rimasto a te dei tuoi sorrisi.
Troverò un campo dove a centinaia crescono i sorrisi.
Te ne porterò una bracciata dei più bei sorrisi.
Tu mi dirai che non hai bisogno di sorrisi,
ché troppo ti hanno stancato i miei e gli altrui sorrisi.
E hanno stancato anche me gli altrui sorrisi.
E hanno stancato anche me i miei propri sorrisi.
Di difesa ne ho tanti di sorrisi,
che mi rendono ancora meno facile ai sorrisi.
Ma, a dire il vero, io non ho sorrisi.
Sei tu per la mia vita l’ultimo dei sorrisi,
sorriso, che sul volto non ha mai sorrisi.

(da Stichi raznych let, 1959)

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Poesia alla fine amaramente dolorosa questa del russo Evgenij Evtušenko, probabilmente dedicata alla moglie Bella Achmadulina, che sposò nel 1954 per un matrimonio durato pochi anni. Perché il sorriso, e qui ce ne sono sedici, oltre a quello del titolo, è l’espressione più amichevole di noi, la vera porta con cui comunica l’anima, come rileva Richard Bach nelle Ali del tempo: “La nostra capacità di riconoscere qualsiasi oggetto fallisce se si dispone di meno di mezzo secondo. Per gli oggetti geometrici, se si ha a disposizione meno d'un cinquantesimo di secondo. Ma la percezione d'un sorriso rimarrà in noi dopo che è balenato per non più d'un millesimo di secondo, tanto è sensibile la nostra mente alla vista del volto umano”.

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LEONARDO DA VINCI, “LA GIOCONDA”

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LA FRASE DEL GIORNO
Un sorriso può aggiungere un filo alla trama brevissima della vita.
LAURENCE STERNE, Vita e opinioni di Tristram Shandy, epistola dedicatoria




Evgenij Aleksandrovič Evtušenko, nato Gangnus (Zima, 18 luglio 1932) poeta e romanziere russo. Tra i poeti più significativi della generazione successiva alla morte di Stalin, ha unito nella sua opera la rivendicazione della libertà di espressione e la denuncia del perdurare, oltre la scomparsa del dittatore, dello stalinismo.



venerdì 18 maggio 2012

Mario Trejo

 

Il 14 maggio è scomparso all’età di 86 anni il poeta argentino Mario Trejo, voce del desiderio di libertà dell’America Latina e del suo lato più sensuale: nato a Buenos Aires il 13 gennaio 1926, portò in giro per il mondo la sua personalità variegata, fu anche giornalista – intervistò Che Guevara e Salvador Allende, Yasser Arafat e Ben Gurion – drammaturgo e scrittore e addirittura attore per Kill me future di Bernardo Bertolucci: collaborò con Astor Piazzolla, che mise in musica alcune delle sue poesie, in particolare Los pájaros perdidos.

 

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GLI UCCELLI PERDUTI

Amo gli uccelli perduti
che tornano dall'aldilà
a confondersi con un cielo
che mai più potrò recuperare.

Tornano di nuovo i ricordi,
le ore giovani che ho dato
e dal mare giunge un fantasma
fatto di cose che amai e persi.

Tutto fu un sogno, un sogno che perdemmo
come perdemmo gli uccelli ed il mare,
un sogno breve e antico come il tempo
che gli specchi non possono riflettere.

Dopo cercai di perderti in tante altre
e quell'altra e tutte eri tu;
infine riuscii a capire quando un addio è un addio,
la solitudine mi divorò e fummo due.

Tornano gli uccelli notturni
che volano ciechi sul mare,
la notte è uno specchio
che mi ridà la tua solitudine

Sono solo un ucello perduto
che torna dall'aldilà
a confondersi con un cielo
che mai più potrò recuperare.

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ULTIMATUM A UN GIOVANE POETA

Che il pane sia pane e mare il mare
Basta congetture
Pipistrelli lunari o roditori di orchidee
Ogni parola ha un prezzo
Le parole che attaccano come raggi o vipere
E anche madre
Amico
E alcool e letto e tavola
E il figlio concepito a dolci spinte
E i funghi che originano lampi d’amore
O bagliori di morte
E il poeta che cade sotto le pallottole
Come un sole che la notte crivella

Che il pane sia pane e mare il mare
E l’acqua eterna
Come la sete è eterna
Per poter dire infine:
Ho trovato un pane in riva al mare
Gli avvoltoi sorvolavano il mio amore
Ho morso un’orchidea

Gli avvoltoi si disputavano un corpo amato
Ho guidato camion e dormito nelle segherie
Gli avvoltoi divoravano la mia amata
Ho viaggiato di notte sulla sabbia calda
Ho invocato i nomi segreti
Ho scongiurato un maleficio
Ho arginato una catastrofe
Ho condotto un’aquila al suo nido
Sono morto con i miei morti e sono vivo

Quando sono arrivato in città
Un folle vagava per le strade
Nel suo sguardo aveva un coltello
Gli ho dato la mia mano
L’ho guardato
Gli ho parlato e la mia voce proseguì tra le stelle
Eravamo noi due soli sulla terra
Eravamo in due sulla terra

La solitudine andò in frantumi
La poesia in parole

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MANOSCRITTO

Mi arrendo.
La religione la mafia
la politica e il calcio
l’esercito e la moda
muovono più gente di me.

Sono milioni o pochi
ma totalmente decisi
al tutto per tutto.
Ho a che fare solo
con le piccole folle
di un cinema notturno
con la solitudine dei giocatori
che officiano una partita di scacchi
con il tepore di alcune donne

Leggo
torno a vedere un vecchio film
faccio notte con Coltrane
e allungo il braccio e accarezzo la mia bella
che mi invita fumando.

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LABBRA LIBERE

Alla fine delle terre e dei giorni
di orari partenze e ritorni
di aeroporti mangiati dalla nebbia
malato di paesi e di chilometri
di hotel sbrigativamente condivisi

Dopo le attese
la fretta
i volti  e i paesaggi differenti
ed essere stati abbacinati dall’oblio
o apertamente baciati dalla vita

Dopo quell'amata
e quest’altra appena intravista
donne catturate dalla mia solitudine
e soffocate dalle belle catastrofi

Dopo la violenza e il desiderio
di ricominciare da capo
e gli errori
e i malintesi quotidiani
e le abitudini torrenziali del tropico
e le notti accarezzate dall’alcool
e il tabacco fumato con tanta incertezza

Alla fine di un nome che non oso dire
e di qualcuno che chiamavo Irene
con una certa voce
con un certo modo di sbarrare gli occhi
alla fine della mia fede nella comprensione degli uomini
e nel cuore di città e nazioni
che non sapranno mai nulla di me

Dopo tanti tentativi di fuggire o confrontarmi
e capire che sono solo
ma non sono solo
alla fine di amori arrugginiti
e confini violati
e della certezza che tutta la vita
non è altro che le macerie
di un’altra che sarebbe dovuta essere

Alla fine del colpo d’ascia irreparabile del tempo
posso solo impugnare queste parole
questa ostinazione di anni e distanze
che si chiama poesia.

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LA FRASE DEL GIORNO
Per me, la poesia non è solo espressione di sentimenti, ma la ricerca di qualche verità.
MARIO TREJO, Barataria, Revista de Poesía, Anno 2, n. 3, giugno 1994




Mario César Trejo (Buenos Aires, 13 gennaio 1926 – Rosario, 14 maggio 2012), poeta, giornalista, drammaturgo e librettista argentino. Voce del desiderio di libertà dell’America Latina e del suo lato più sensuale, portò in giro per il mondo la sua personalità variegata. Intervistò Che Guevara e Salvador Allende, Yasser Arafat e Ben Gurion. Collaborò con Astor Piazzolla, che mise in musica alcune delle sue poesie.

giovedì 17 maggio 2012

Le mura del manicomio


ALDA MERINI

LA TERRA SANTA

Ho conosciuto Gerico,
ho avuto anch'io la mia Palestina,
le mura del manicomio
erano le mura di Gerico
e una pozza di acqua infettata
ci ha battezzati tutti.
Lì dentro eravamo ebrei
e i Farisei erano in alto
e c'era anche il Messia
confuso dentro la folla:
un pazzo che urlava al Cielo
tutto il suo amore in Dio.

Noi tutti, branco di asceti
eravamo come gli uccelli
e ogni tanto una rete
oscura ci imprigionava
ma andavamo verso la messe,
la messe di nostro Signore
e Cristo il Salvatore.

Fummo lavati e sepolti,
odoravamo di incenso.
E dopo, quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno.

Ma un giorno da dentro l'avello
anch'io mi sono ridestata
e anch'io come Gesù
ho avuto la mia resurrezione,
ma non sono salita ai cieli
sono discesa all'inferno
da dove riguardo stupita
le mura di Gerico antica.

Le dune del canto si sono chiuse,
o dannata magia dell'universo,
che tutto può sopra una molle sfera.
Non venire tu quindi al mio passato,
non aprirai dei delta vorticosi,
delle piaghe latenti, degli accessi
alle scale che mobili si dànno
sopra la balaustra del declino;
resta, potresti anche essere Orfeo
che mi viene a ritogliere dal nulla,
resta o mio ardito e sommo cavaliere,
io patisco la luce, nelle ombre
sono regina ma fuori nel mondo
potrei essere morta e tu lo sai
lo smarrimento che mi prende pieno
quando io vedo un albero sicuro.

(da La Terra Santa, Scheiwiller, 1984)

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1965-1979: sono i lunghi anni in cui Alda Merini entrò e uscì dall’ospedale psichiatrico “Paolo Pini” di Milano. La prima volta ve la portò il marito Ettore Carniti, dopo l’ennesima lite causata dal disagio psichico di Alda. Il “manicomio”, come lo chiamava lei, fu anche il luogo in cui la sua poesia tornò, dopo anni di silenzio e di incomunicabilità: “Non avrei potuto scrivere in quel momento nulla che riguardasse i fiori perché io stessa ero diventata un fiore, io stessa avevo un gambo e una linfa” e infatti il canto che sgorgò dal “Paolo Pini” era diverso dalle precedenti opere, l’ultima delle quali risaliva al lontano 1962. “Il manicomio è una grande cassa / di risonanza / e il delirio diventa eco / l'anonimità misura, / il manicomio è il monte Sinai, / maledetto, su cui tu ricevi / le tavole di una legge / agli uomini sconosciuta”. Così l’ospedale diventa il viaggio compiuto dagli Ebrei per raggiungere la Terra Promessa, un percorso per passare dall’inferno dell’esilio al paradiso della casa, della normalità. Non sarà così, purtroppo: anche il paradiso, il mondo esterno al “manicomio” è un altro inferno di dolori e debolezze, di passioni e di povertà, di miserie e difficoltà.

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LA FRASE DEL GIORNO
Anche la follia merita i suoi applausi.
ALDA MERINI, Aforismi e magie




Alda Giuseppina Angela Merini (Milano, 21 marzo 1931 - 1º novembre 2009),  poetessa, aforista e scrittrice italiana. Vide pubblicate le prime poesie a diciannove anni. L’amore agitato con Giorgio Manganelli riportò alla luce i disagi psichici: dal 1965 al 1972 fu internata in ospedale psichiatrico. Dimessa, visse nella sua casa sui Navigli, spesso in stato di emarginazione, circondandosi di artisti.


mercoledì 16 maggio 2012

Il confine esatto della rosa


GILBERTO OWEN

LÀ NEI MIEI ANNI

Là nei miei anni la Poesia usava come segno una X,
e la sua coscienza si chiamava quindici.
Cosa farebbero le rose
senza chi fissi il confine esatto della rosa?

Cosa farebbero gli uccelli (anche quelli più rari)
senza chi misuri il numero esatto del loro trillo?
Ora, uccelli e rose dovrebbero cavarsela da soli
e la vita avrebbe molto meno senso.
Come la schiava che ha perso il suo padrone
(e tu eri la sua padrona e lui tuo schiavo),
così te ne andrai Poesia per le strade del Messico.

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La poesia è una Musa e signora e il poeta è il suo servo fedele. Così la pensava il simbolista messicano Gilberto Owen. Un servo assolutamente necessario alla comprensione del mondo e della realtà. Senza il poeta, capace di esprimere la poesia, di interpretare i segnali che essa invia, il senso del reale andrebbe perduto: le rose e gli uccelli non avrebbero più valore e non avrebbe più valore neppure la poesia, che rimarrebbe inespressa.

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SALVADOR DALÍ, “ROSA MEDITATIVA”

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LA FRASE DEL GIORNO
Se non è amore, che cos’è questa cosa che mi travolge di dolcezza? / Inutile domani: uccelli e fiori senza testimoni.
GILBERTO OWEN, Sindbad el Varado




Gilberto Owen Estrada (El Rosario,13 maggio 1904 - Philadelphia, Pennsylvania,  9 marzo 1952), poeta messicano. Fortemente influenzato da Rimbaud, Eliot e dall'estetica d'avanguardia, adattò i loro dettami alla sua originaria formazione barocca costruendo un'opera ricca di riferimenti colti ed esoterici.


martedì 15 maggio 2012

Folate di chiarore


JOSÉ GOROSTIZA

LA LUCE CORTESE

Dispone il giorno in fila nel mattino
tiepide chiazze di luce per la città.
Si indovina quasi la primavera,
come se discendesse
in lente folate di chiarore.

La luce, la luce cortese
(se non ci fosse
la luce, invocheremmo un sorriso)
arrampicandosi leggera sui muri,
disegna l’imprecisa
illusione di un soffice convolvolo.
Ondeggia, danza e tremolando si fa iridescente!

E la città, con intimo candore,
sotto il duro metallo di una campana
risveglia l’inquietudine del mattino,
e si sfila in spicchi di colore.

Ha messo il Signore,
nel corso del giorno,
essenze di dolore
e un chiodo pungente di malinconia.

Per questo il chiarore, scendendo
in volute di canti,
accende un’allegria di donna
nello specchio grigio del cuore.

Se ieri abbiamo visto la luna, stemperata
su una cresta silenziosa di montagne...
se ieri l’abbiamo vista spargersi in una
indulgenza di lampada accorata
e ci duole sfiorare sulle ciglia
l’oro della luna.

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La luce del mattino, quella che arriva radente e prima che il sole si levi a picco nel cielo di mezzogiorno, avvolge le cose con i suoi colori d’iride, con il suo tocco leggero e delicato di tinte pastello, accendendo riflessi sull’inizio di un giorno di primavera che promette bellezza ma che sappiamo avrà comunque i suoi momenti di noia o di malinconia, e contrarietà e affanni. Ci sarà tempo per pensarci, durante il giorno, dice il poeta messicano José Gorostiza: ma ora abbandoniamoci al momento, all’allegria timida di questa luce che risuona degli echi delle campane e di un lontano canto di donna, mentre ci portiamo ancora negli occhi la dolcezza di ieri sera.

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FOTOGRAFIA © PHOTOGOTO

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LA FRASE DEL GIORNO
Nessun giorno è uguale all'altro, ogni mattina porta con sé un particolare miracolo, il proprio momento magico, nel quale i vecchi universi vengono distrutti e si creano nuove stelle.
PAULO COELHO, Sulla sponda del fiume Piedra mi sono seduta e ho pianto




José Gorostiza Alcalá (San Juan Bautista, oggi Villahermosa, 10 novembre 1901 – Città del Messico, 16 marzo 1973), poeta e diplomatico messicano. Pubblicò solo due libri: Canzoni da cantare in barca (1925) e Poesie (1964) in cui cercò la purezza e la semplicità con uno spirito sottile e profondo.


lunedì 14 maggio 2012

La sera


JANE KENYON

CHE SCENDA LA SERA

Che la luce del tardo pomeriggio
brilli attraverso le fenditure del granaio, scalando
le balle di fieno quando il sole si abbassa.

Che il grillo cominci a strimpellare
come una donna che prenda i ferri
e il suo filato. Che scenda la sera.

Che la rugiada si raccolga sulla zappa abbandonata
nell’erba alta. Che appaiano le stelle
e la luna scopra il suo corno d'argento.

Che la volpe torni alla sua tana sabbiosa.
Che cada il vento. Che nel fienile
entri l’oscurità. Che scenda la sera.

Per la bottiglia nel fosso, per la pala
nell’avena, per l’aria nei polmoni
che scenda la sera.

Che scenda, sia come sia, e non
avere paura. Dio non ci lascia
senza conforto, e allora che scenda la sera.

(da Otherwise: New & Selected Poems, 1996)

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L’intima semplicità dei versi di Jane Kenyon, poetessa statunitense, risalta anche da questa poesia: l’emozione diventa pacato abbandono più che fatalismo, si trasforma in una fiduciosa accettazione del destino – Jane Kenyon la scrisse per un amico malato di cancro, il pastore Jack Jensen, ed è chiaro a tutti quale sia la sera che sta per cadere, invocata come un termine all’umana sofferenza, come un’oscurità in cui ogni cosa ritrova la sua pace.

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FOTOGRAFIA © MATAMU

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LA FRASE DEL GIORNO
O stanco dolore, riposa! / La nube nel giorno più nera / fu quella che vedo più rosa / nell'ultima sera
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GIOVANNI PASCOLI, Canti di Castelvecchio




Jane Kenyon (Ann Harbor, Michigan, 23 maggio 1947 – Wilmot, New Hampshire, 22 aprile 1995), poetessa e traduttrice americana. La sua poesia, spesso  semplice, sobria ed emotivamente risonante, sonda la psiche ed esplora il ciclo della natura. Tra le sue traduzioni spiccano le poesie di Anna Achmatova.


domenica 13 maggio 2012

Madre

 

GIUSEPPE UNGARETTI

LA MADRE

E il cuore quando d’un ultimo battito
Avrà fatto cadere il muro d’ombra,
Per condurmi, Madre, sino al Signore,
Come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,
Sarai una statua di fronte all’Eterno,
Come già ti vedeva
Quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,
Come quando spirasti
Dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m’avrà perdonato,
Ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d’avermi atteso tanto,
E avrai negli occhi un rapido sospiro.

(da Sentimento del tempo, 1933)

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Mia madre se n’è andata un mattino di fine febbraio, lasciandomi da quell’alba dolorosa in uno stato di continuo sgomento: come Else Lasker-Schuler posso dire “Sento la mia vita nuda – / dalla terra materna si distacca – / mai tanto nuda è stata la mia vita / e tanto arresa al tempo”. E questa festa della mamma che giunge oggi mi trova per la prima volta nel novero di coloro che si devono affidare al ricordo per celebrare la giornata. Così è con occhi nuovi che leggo poesie sulle quali prima mi soffermavo non dico distrattamente ma con la fortunata ignoranza di chi non conosceva quello sterminato dolore. È con occhi nuovi che leggo oggi “La madre” di Giuseppe Ungaretti (1888-1970): riesco a comprendere quel rapporto tra passato e futuro, tra presenza e assenza che il poeta traccia come se fosse una preghiera servendosi di un linguaggio più piano e più sereno del suo costume. E un leggero sorriso mi spunta sul volto quando ricordo, guidato da Ungaretti, quei piccoli gesti di affettuosità materna.

Da Bolzano, dove mi trovo per l’85ª Adunata Nazionale degli Alpini, invio un augurio e un fiore virtuale a tutte le mamme…

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FIRMIN BAES, “DOUX RÊVES”

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LA FRASE DEL GIORNO 
Presso alla culla, in dolce atto d’amore, / che intendere non può chi non è madre, / tacita siede e immobile.
GIUSEPPE GIUSTI, Poesie




Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1º giugno 1970) è uno dei tre grandi poeti dell’Ermetismo italiano. Trasferitosi a Parigi nel 1912, prese parte alla Prima guerra mondiale nelle trincee del Carso e poi in Champagne. Dal 1935 al 1942 insegnò in Brasile e dal 1947 al 1965 fu professore di letteratura moderna alla Sapienza.


sabato 12 maggio 2012

Sognando di volare


RICHARD WILBUR

VOLARE

Le cime degli alberi non sono così alte
Né io sono così basso
Da non sapere istintivamente
Come sarebbe volare

Attraverso i varchi aperti dal vento, quando
Le foglie si muovono
E c'è un oscillare di rami
Che si abbassano e si alzano.

Qualunque sia il mio genere,
Non è assurdo
Confondermi con un uccello
Per la durata di un sogno:

La mia specie non ha mai volato,
Ma io in qualche modo so
Che è qualcosa che molto tempo fa
Mi sono quasi adattato a fare.

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Il sogno di volare è sempre stato dell’uomo, forse un retaggio ancestrale con il quale invidiamo la libertà agli uccelli e agli insetti che si possono spostare liberamente nell’aria: simbolo di liberazione, estraniamento dalla realtà quotidiana, desiderio o bisogno di distacco – Artemidoro di Efeso, filosofo greco del II secolo d.C. scrive nel suo Onirocriticon che “sempre chiamiamo felici i più alti” e che “gli uccelli che volano non hanno signore né seguono alcun capitano”. Proprio quello che racconta in versi Richard Wilbur poeta americano e traduttore delle opere teatrali di Molière, Racine e Corneille.

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PATSY McARTHUR, “FLYING MAN STUDY I”

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LA FRASE DEL GIORNO
Gran parte dei nostri sogni li viviamo con assai maggiore intensità della nostra esistenza da svegli.
HERMANN HESSE, Aforismi




Richard Purdy Wilbur (New York, 1° marzo 1921) poeta e traduttore statunitense: ha caratterizzato le sue opere, scritte in forma tradizionale, con signorile eleganza e arguzia. Ha vinto il Premio Pulitzer per la poesia nel 1957 e nel 1989.